Dopo le motivazioni della sentenza sull'indomani della strage di via D'Amelio, la Procura apre un'indagine per calunnia aggravata nei confronti di tre agenti. Che avrebbero imbeccato Vincenzo Scarantino e Francesco Andriotta
Borsellino quater, sotto accusa altri tre poliziotti Ex finto pentito: «Io manovrato con soldi e appunti»
Se non fosse «uno dei più gravi depistaggi della storia italiana», verrebbe quasi da complimentarsi con i giudici della Corte d’Assise di Caltanissetta per l’avvincente e oscura trama che viene fuori dalle 1850 pagine delle motivazioni della sentenza del Borsellino quater, che sulla strage di via d’Amelio delineano uno scenario che sembra tratto da un film di Elio Petri. A suscitare scalpore è in realtà un aspetto non nuovo: la vicenda dei falsi pentiti. Manovrati da pezzi dello Stato e in special modo dal pool guidato dall’ex capo della squadra mobile Arnaldo La Barbera. «Una pluralità di dichiarazioni – scrivono i giudici – in esecuzione di un medesimo disegno criminoso».
In particolare fu Vincenzo Scarantino ad accusare – falsamente, secondo i magistrati – Salvatore Profeta, Gaetano Scotto, Cosimo Vernengo, Natale Gambino, Giuseppe La Mattina, Gaetano Murana e Giuseppe Urso. Tutti condannati all’ergastolo per aver partecipato, a vario titolo, alle fasi preparatorie ed esecutive dell’attentato di via D’Amelio. E poi scagionati. Mentre Francesco Andriotta puntava il dito contro lo stesso Scarantino e le prime tre persone da lui indicate (Profeta, Scotto e Cosimo). Ma chi avrebbe imbeccato questi due improbabili mafiosi, in realtà poco più che malandrini?
A indicarlo sono i giudici della Corte d’Assise. Si tratta di tre funzionari di polizia: Mario Bò, dirigente del pool che coordinò gli accertamenti sulla strage del 19 luglio del 1992, e gli assistenti Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo. Per tutti e tre l’accusa è di calunnia aggravata. I tre avrebbero confezionato una verità di comodo sulla fase preparatoria dell’attentato e costretto il falso pentito Vincenzo Scarantino a fare nomi e cognomi di persone innocenti. L’udienza preliminare contro di loro si terrà nei prossimi mesi. Ma ad avere ideato il piano, secondo i giudici, era Arnaldo La Barbera, definito il superpoliziotto e nel frattempo morto. Bò avrebbe avuto il ruolo del comprimario, Ribaudo e Mattei sarebbero stati esecutori materiali. Chiamato a deporre nel processo, Mario Bò si era avvalso, nel novembre del 2013, della facoltà di non rispondere. Mentre La Barbera aveva scelto di parlare davanti alle domande dei giudici a dicembre del 2013.
Di Bò parla moltissimo nelle sue deposizioni l’imputato Francesco Andriotta (a sua volta condannato a dieci anni per calunnia). L’uomo racconta di avere ricevuto «nel corso del tempo, in due o tre occasioni, delle somme di danaro per un totale di circa dieci o dodici milioni di lire, ulteriori rispetto alle somme accreditategli dal Servizio centrale di protezione. Dette somme, a dire di Andriotta, venivano consegnate, in un’occasione, direttamente alla sua ex moglie (Bossi Arianna) da Arnaldo La Barbera e, un’altra volta, invece, nelle sue mani da Mario Bò, durante un permesso premio». Sempre Andriotta – negli anni trasferito di carcere in carcere – segnala che «gli veniva messo a disposizione dagli inquirenti» il testo che doveva fornire poi a chi lo avrebbe interrogato. E di aver ricevuto «personalmente dal dottor Mario Bò» anche «il verbale contenente la ritrattazione dibattimentale di Vincenzo Scarantino».
Quest’ultimo, infatti, nel frattempo aveva affermato in una trasmissione tv di essere stato costretto a mentire, sotto tortura e minacce. Ciò avveniva a luglio del 1995, ad appena tre anni dall’omicidio di Borsellino e dei cinque agenti della scorta. Lo scopo dei poliziotti che si servivano di Andriotta, secondo i giudici, era quello di «screditare la ritrattazione di Scarantino, facendola apparire come il frutto di un’intimidazione mafiosa». Non solo. Bò avrebbe a più riprese suggerito ad Andriotta cosa dire, gli avrebbe consigliato di denunciare a sua volta per calunnia Scarantino, gli avrebbe persino fatto presente di «nominare, come propri difensori, due dei legali che difendevano alcuni imputati della strage di via D’Amelio».
E poi c’è il ruolo degli altri appartenenti al gruppo Falcone-Borsellino della polizia nella vicenda di Scarantino, tra i quali appunto Mattei e Ribaudo, che – tra l’ottobre del 1994 e il maggio del 1995 – «si prestarono ad aiutarlo nello studio dei verbali di interrogatorio, redigendo una serie di appunti che erano chiaramente finalizzati a rimuovere le contraddizioni presenti nelle dichiarazioni del collaborante, il quale sarebbe stato sottoposto ad esame dibattimentale nei giorni 24 e 25 maggio 1995 nel processo “Borsellino uno”. Tali appunti sono stati riconosciuti come propri dall’ispettore Fabrizio Mattei, nell’udienza del 27 settembre 2013, il quale ha sostenuto di essersi basato sulle indicazioni dello Scarantino». I giudici però non credono a questa versione.
«Risulta del tutto inverosimile – scrivono – che lo Scarantino, da un lato, avesse un tasso di scolarizzazione così basso da necessitare di un aiuto per la scrittura e, dall’altro, potesse rendersi conto da solo delle contraddizioni suscettibili di inficiare la credibilità delle sue dichiarazioni in sede processuale». Più sfumato, infine, il ruolo di Ribaudo: un agente che avrebbe assistito ad alcuni interrogatori, come quello del 26 gennaio 1995, al carcere di Paliano, in cui Andriotta non ricorda chi gli abbia in quel caso suggerito cosa dire a proposito di una riunione mafiosa a villa Calascibetta.
Ieri sono giunte, intanto, le prime precisazioni di Nino Caleca, legale di uno dei funzionari di polizia: «Preciso che il dottor Mario Bo in questo processo non era imputato. È stato solo ascoltato come teste. Ricordo che già una volta per queste medesime accuse il gip di Caltanissetta ha disposto l’archiviazione. Ora attendiamo il nuovo procedimento con tranquillità».