Nel regno di Salvatore Profeta l'autorità riconosciuta era quella del vecchio capomafia. A lui si rivolgevano i residenti del quartiere Guadagna per risolvere contrasti interni e sotto di lui passavano tutte le decisioni. Da gestire c'erano gli affari del clan. Stanotte una folla commossa lo ha salutato al momento dell'arresto
Blitz Stirpe, ufficio del boss in bar della piazza Addiopizzo: «Profonde sacche di reticenza»
Il capo della Squadra mobile, Rodolfo Ruperti, lo dice senza giri di parole. «Il quartiere Guadagna rappresenta un fortino». Impermeabile o quasi alla legalità. Lì nel regno di Salvatore Profeta, tornato a gestire i suoi affari una volta scarcerato nel 2011 dopo la revisione del processo sulla strage di via D’Amelio e oggi di nuovo arrestato, l’autorità riconosciuta era quella del vecchio capomafia. A lui si rivolgevano i residenti del quartiere per risolvere contrasti interni e sotto di lui passavano tutte le decisioni. Da gestire c’erano gli affari del clan. Il traffico di droga innanzitutto, ma anche le estorsioni. Richieste di denaro per finanziare le casse di Cosa nostra accompagnate da ripetuti atti intimidatori, per rendere le parole più convincenti e gli avvertimenti più concreti. Nel mirino del vecchio padrino, del figlio Antonino, e di Francesco Pedalino, genero di Salvatore Profeta, tutti finiti in carcere nell’ambito del blitz Stirpe, c’era un importante imprenditore palermitano del settore della distribuzione alimentare.
«È stata un’indagine complessa, difficile fare pedinamenti e intercettazioni» ammette Ruperti. Perché nella storica roccaforte di mafia, paese dentro il paese, gli sbirri sono minoranza. Se non avversari. Anche stanotte i poliziotti sono stati quasi accerchiati. Una folla commossa salutava il vecchio boss. «In centinaia – raccontano gli investigatori – si sono riversati in strada, gente che voleva farsi vedere da lui, attestare la propria presenza e la vicinanza al boss». Per testimoniare una presenza e una solidarietà. Contro lo Stato.
In mezzo alle gente c’era tornato dopo 18 anni di reclusione, quando le dichiarazioni del collaboratore di giustizia, Gaspare Spatuzza, hanno ribaltato verità processuali e anni di indagini, portando alla revisione dei processi per decine di imputati, tra cui anche Salvatore Profeta. Così tornato a casa, aveva ripreso le redini del comando e aveva scelto come ufficio un bar nella piazza centrale della borgata. Lì incontrava uomini d’onore, capi e gregari, dettava regole e rafforzava il suo ruolo di punto di riferimento per l’intera Cosa nostra palermitana. Riorganizzando il potere secondo rituali di affiliazione arcaici.
Un ritorno alla tradizione in un quartiere, dove, come ha spiegato in conferenza stampa il questore Guido Longo, «ci sono giovani mafiosi agguerriti e disposti a tutto pur di emergere nelle gerarchie. Giovani determinati e cruenti che vogliono scalare le gerarchie mafiose con qualunque mezzo». Un quartiere dove «ancora adesso le sacche di reticenza nel tessuto sociale ed economico sono molto profonde» dicono dall’associazione antiracket Addiopizzo. «Sono state necessarie le indagini degli investigatori della Squadra mobile e dei magistrati della Dda, a cui esprimiamo tutto il nostro ringraziamento, per raccogliere successivamente la collaborazione degli operatori economici. Collaborazioni che, pure se avvenute dopo e sostenute da Addiopizzo, hanno comunque un valore molto importante proprio per il contesto assai difficile dove queste maturano».