Black Axe, la vittima riconosce il suo seviziatore in aula «Mi hanno spinto dentro e hanno iniziato a picchiarmi»

«Questa è l’ultima volta che scopi con questa donna». Il nigeriano Afube Musa, sentito questo pomeriggio come teste assistito dalla prima corte d’assise di Palermo, è convinto che sia questo il motivo per cui la Black Axe lo ha punito. Per la sua relazione sessuale con la donna di un altro, Ada Biafra, che in passato avrebbe voluto sposare se non fosse stato per l’arresto di lei che ha separato le loro strade per dodici anni. Si ritrovano nel 2014 in Sicilia, lui si è sposato ormai con un’altra donna e vive a Floridia, in provincia di Siracusa. Lei invece a Palermo. Tra loro ci sono alcuni incontri: all’inizio va lei a trovarlo, in due occasioni invece è lui a sobbarcarsi il viaggio per incontrarla. È in uno di questi incontri a casa di lei che vede per la prima volta quello che poi sarebbe stato uno dei suoi aggressori. Un uomo che, a giudicare dalle foto in bella mostra sulle pareti di casa che ritraggono lui e Ada, potrebbe esserne il compagno, che non prende troppo bene la relazione fra i due.

Anzi per niente, perché un giorno, mentre Afube Musa e Ada Biafra sono soli in casa da lei, bussa alla porta il compagno. Ma non è solo. Insieme a lui ci sono altri 14 nigeriani: vogliono tutti una sola cosa, punire quell’uomo per aver oltrepassato i limiti. Afube Musa non sa chi siano, non conosce nessuno di loro, ripete in aula di non averli mai visti, di non sapere che appartengano a un gruppo chiamato Black Axe. Gruppo del quale dice di sapere poche cose, giusto per sentito dire: «Non so bene, c’è una squadra, un gruppo della Nigeria, sono pericolosi, come Boko Haram, fanno queste cose di droga, o di donne e uomini – dice in aula -. Loro sono in tutto il mondo, sono anche in Libia». Intanto, entrati in casa lo colpiscono con schiaffi e spintoni, Ada inizia a urlare a piangere. Decidono allora di andare via, non è sicuro rimanere nell’appartamento. Convincono Afube Musa a seguirli: «Mi hanno fatto entrare in una macchina, uno mi teneva a destra e un altro a sinistra. Sono salito a bordo perché non volevo che dicessero a mia moglie quello che avevo fatto e poi ero tranquillo, sapevo che questa punizione riguardava solo me e non lei, andava bene così».

Non sa dire quanto duri quel giro in auto. Sa che a un certo punto, posteggiata la macchina, percorrono un breve tratto a piedi fino a un bar. Dentro ci sono un uomo e una donna che servono da mangiare ad alcuni clienti. È qui dentro che di lì a breve inizia l’orrore. Inizia esattamente qualche metro più avanti, oltre una porta che conduce a una stanzetta appartata, dove nessuno disturberà il gruppo di nigeriani che scorta un ignaro Afube Musa. «Mi hanno spinto dentro e hanno iniziato a picchiarmi, uno alla volta: mi davano calci, anche mentre ero ormai a terra – racconta -. E poi mi hanno dato anche un calcio in testa, mi sentivo quasi morto». Non sa che quello non è che l’inizio. Rimane steso a terra per mezzora. Fino a quando dal gruppo non si fa largo un uomo più robusto e possente, che si atteggia con gli altri come fosse il loro capo, una sorta di responsabile. «Ha guardato gli altri e ha detto solamente “Basta”, e si sono fermati tutti». In due alzano da terra Afube Musa e insieme al capo si dirigono in un piccolo bagno di una trentina di metri quadrati. Non c’è molto, solo una porta, un gabinetto e una cassetta per scaricare. A terra c’è anche un tubo di ferro.

«Il capo di loro aveva in mano un libro. Poi ha raccolto anche questo bastone e mi ha detto di abbassarmi i pantaloni. Lì ho capito che qualcosa non andava». All’inizio Afube Musa fa resistenza, non vuole svestirsi. Ma ricominciano le percosse e ormai sfiancato dalle botte già prese, decide di assecondare quell’ennesimo ordine. Una volta nudo, il capo lo fa piegare in avanti, gli mette una crema nell’ano e tenta più volte di infilare il tubo di ferro. Ma il diametro è troppo largo e non riesce pienamente nell’intento, mentre il ragazzo continua a cadere a terra. Allora lo gira, mentre Afube Musa è stramazzato sul pavimento, e tira fuori dalla tasca uno stuzzicadenti. «Lo ha infilato nel mio cazzo», dice ai giudici, all’inizio tentennando un po’ visto la natura particolarmente intima della tortura. Passa un’altra interminabile mezzora dentro a quel bagno, sanguinante e in lacrime. Implora di smettere, ha capito la lezione, ha capito il messaggio. «Mi hanno fatto rivestire, mi hanno messo su un motorino e in tre siamo tornati a casa di Ada – continua il suo racconto -. Ho chiesto di lasciarmi in un ospedale perché mi sentivo male, ma non hanno voluto». Arrivati all’appartamento, lo adagiano su un divano e cercano di convincerlo a fare una doccia per lavare via il sangue, ma lui non ce la fa. «Volevo solo una medicina per il dolore».

Sono le sei del mattino quando si accorge di una finestrella dentro al bagno. La apre, si affaccia e inizia a urlare con tutto il fiato che gli è rimasto in corpo. «Non vedevo nessuno, ma dovevo chiedere aiuto se no morivo». È così che i vicini di casa lo sentono e chiamano le forse dell’ordine, che dopo poco fanno irruzione nell’appartamento salvandolo. Non sa, Afube Musa, che per questa brutale aggressione due uomini vengono processati e condannati. Non sa nemmeno che a ridurlo in quelle condizioni per quella che lui racconta come una semplice questione di donne siano i membri della Black Axe, un nome che quella sera non pronuncia nessuno. Non sa che alcuni di quel commando di torturatori potrebbe anche essere nella stessa aula insieme a lui. Il giudice Sergio Gulotta gli mostra alcune foto. Afube Musa non riconosce nessuno, tranne uno: «È proprio lui, il capo di loro, cento per cento». Per due volte riconosce la foto numero nove davanti ai giudici. A questo punto viene chiesto a ciascuno dei cinque imputati di uscire dalla gabbia dell’aula e posizionarsi di fronte al teste. Afube Musa li squadra tutti quanti, solo per due di loro crede di ravvisare dei tratti familiari, ma non può esserne certo. Tra questi due c’è proprio il volto immortalato nella foto numero nove. Il teste in pratica riconosce il peggiore dei suoi aguzzini in foto ma sembra non riconoscerlo dal vivo appena se lo ritrova davanti. 


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