Un affare da 25 milioni con una promessa di cento posti di lavoro era saltato anche per causa sua. Adesso Giuseppe Pecorino, 78 anni, già condannato per associazione mafiosa, viene colpito da un sequestro di beni per un valore di 1 milione e 70mila euro. Al centro delle indagini della Guardia di Finanza di Caltanissetta, coordinata dalla locale Direzione distrettuale antimafia, c’è la vendita di alcuni terreni in territorio di Agira, provincia di Enna, da parte di Pecorino alla società venetaFassa Bortolo, a cui i militari non contestano alcun reato. La multinazionale leader nel settore dei prodotti per l’edilizia avrebbe voluto aprire nel cuore della Sicilia una cava per l’estrazione di calcare, e realizzare nello stesso luogo uno stabilimento per la trasformazione del minerale in prodotti industriali.
Secondo le indagini delle fiamme gialle, per eludere i successivi controlli patrimoniali e gli eventuali sequestri, Pecorino avrebbe donato al figlio Biagio i terreni che poi avrebbero dovuto essere oggetto di compravendita con Fassa Bortolo. Terreni che poi sarebbero rientrati in suo possesso solo qualche giorno prima della stipula del contratto con la società. E ancora il 78enne avrebbe venduto altri terreni al figlio, stavolta con un contratto che attestava un pagamento di 450mila euro che, invece, non sarebbe mai stato incassato. «Un ulteriore elemento – sottolineano i finanzieri guidati dal maggiore Salvatore Seddio – che acclara ancora una volta come queste operazioni abbiano carattere fittizio, tese ad alienare solo dal punto di vista formale i beni di Pecorino e finalizzate a evitare i successivi sequestri patrimoniali che, a seguito della sua condanna per mafia, appaiono inevitabili».
Pecorino padre e figlio sono quindi indagati per intestazione fittizia di beni. Al più anziano viene contestata anche l’aggravante mafiosa. L’uomo infatti, viene ritenuto dagli investigatori ancora organico a Cosa Nostra ennese, in particolare al gruppo di Catenanuova. La sua storia criminale è lunga: nel 1995 viene raccomandato da Luigi Ilardo, cugino del boss Giuseppe Madonia, come possibile capo provinciale. Il suo spessore criminale viene meglio definito nel 2011 nell’ambito dell’operazione Fiumevecchio, da cui è emerso come figura di spicco della criminalità organizzata della provincia; dalle intercettazioni che portarono alla sentenza di condanna si evince anche il suo stretto e costante collegamento con la famiglia Santapaola di Catania.
Le indagini che hanno portato al sequestro sono nate da un’attività di monitoraggio sul settore delle cave che i finanzieri eseguono periodicamente, visto il rischio di infiltrazioni mafiose in un settore particolarmente sensibile. Ad attirare l’attenzione su Pecorino sono stati i vari passaggi di proprietà dei beni di contrada Santa Nicolella, peraltro non comunicati alla Guardia di finanza, prescrizione che invece è obbligatoria per i condannati per reati di criminalità organizzata. Oltre ai terreni, sono state sequestrate somme per 620mila euro. Si tratta del valore dei terreni venduti a Fassa Bortolo. «Essendo quelle aree oggi di proprietà della società veneta – spiega il maggiore Seddio che ha condotto le indagini – e non avendo elementi per sostenere che l’impresa sapesse con chi aveva trattato la vendita, non abbiamo sequestrato i terreni ma disponibilità finanziarie e altri beni per un valore equivalente».
La presenza di Giuseppe Pecorino tra i venditori è uno degli elementi principali che ha portato a far sfumare l’affare. Prima dell’intervento della Guardia di finanza, infatti, il distretto minerario di Caltanissetta aveva ritirato l’autorizzazione inizialmente concessa, sostenendo il venir meno del rispetto del Protocollo di integrità. Fassa Bortolo ha sempre sostenuto di non essere stata a conoscenza del profilo dell’acquirente, «altrimenti ci saremmo sicuramente fermati prima», hanno precisato dalla società che invece solleva perplessità sugli enti che avrebbero dovuto vigilare su questi aspetti. Il progetto aveva comunque ricevuto uno stop dalla Soprintendenza ai Beni culturali di Enna, perché la cava si trova all’interno dell’area di Monte Scalpello, sito di interesse storico-archeologico.
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