Augusta: da Megara Iblea a Toxicity

SS 114. L’asfalto trasuda fuoco da sotto gli pneumatici in movimento. Poco più in là, ai lati, i guard-rails mestamente mostrano i resti di quelli che prima erano stati degli oleandri, magari non proprio rigogliosi ma comunque oleandri: ora solo cenere, erba secca e qualche timido ramoscello superstite. Un altro po’ più in là file di auto, in attesa, riflettono il sole e gli restituiscono i raggi un po’ più cupi: attendono il ritorno di un qualcuno che forse tarderà, che forse non tornerà mai o che comunque tornerà diverso. Ancora più in là uno scenario volgarmente maestoso, che insieme genera stupore e sgomento, rabbia e rassegnazione. Un groviglio di tunnel e tubi metallici, scale, condotti, ciminiere, serbatoi… inestricabile. Lo sguardo si perde alla ricerca di un senso in quel disordine. Qualcuno afferma di averlo trovato: non gli ho mai creduto! Posso solo tentare di descrivere quello che vi ho trovato io, laggiù, in quella città fantasma.

Ho visto un’enorme macchia, un’enorme macchia nera non del tutto dissimile da quella che può vedersi, incrostata, sul cuore di un uomo che ha ucciso, se è proprio vero che nessun colpevole trova indulgenza di fronte a se stesso. Non verrà mai lavata… nessun purgatorio credo io potrebbe, ormai.

Una macchia protesa con arroganza al cielo, come una nuova Babele, silenziosa però; una macchia che muove guerra al mare, lo defrauda, lo violenta, lo svuota… Una macchia sull’orizzonte, sui colli, sulla strada, su quell’estate ormai al finire e, più in là, sui polmoni della gente, nel grembo di una donna che offre al mondo una speranza o solo un altro uomo, sulle pietre che hanno fatto tanta storia.

Talmente meschino quello scenario, svilito il paesaggio, mortificato il creato che, d’un tratto, ho trovato in Keats colui che, senza dubbio meglio di me e più brevemente, avrebbe potuto sintetizzare quell’orrore ed eternarlo, quasi ne fosse degno, in un verso. <<Beauty is Truth, Truth is Beauty, and this is all you need to know…>>. Intimamente porsi a John le mie scuse: non mi era mai piaciuto, vanesio, ma…quanta ragione in quelle parole! La bellezza è il motore della vita: e non la pseudo-bellezza di corpi anoressici o gonfi di plastica, di auto sportive, di abiti griffati.. ma della perfezione del cosmo. Se solo ci si limitasse a preservare la bellezza del mondo, la sua imperscrutabile perfezione senza cercarla in un ascetico altrove… Di terra, e di terra vivere e per la terra… Riscoprire l’incanto di contemplare un’urna greca, invece che ricoprire di umana melma la culla che, perfetta, con orgoglio, la cela agli occhi famelici dell’uomo imprenditore, costruttore, architetto, politico… operaio. Un uomo che, a quel tempo (c’era una volta il boom economico), non seppe scegliere, o forse vuoi per ignoranza, paura, fame e stanchezza di una vita di polvere e patate, non seppe capire, capire a cosa la fabbrica avrebbe portato, dove avrebbe seppellito i nostri carretti e i nostri morti del nuovo millennio, abbattuto i nostri aranci e i pilastri della nostra civiltà, come avrebbe  ucciso il nostro pesce e le nostre tradizioni, infettato la nostra aria e i nostri valori. Racconta mio nonno di sale e mare e zagara e piccoli papaveri rossi. Piccoli idilli di altri tempi, ma di solo cinquanta anni fa.

Quella che in maniera disordinata, sbavata e forse anche un po’ confusa, volevo raccontare era, è, la storia del mio paese, di tanti paesi magari, che come il mio hanno rinnegato la bellezza per inseguire l’inganno di questo secolo. Sogni di benessere, di progresso, di denaro, cibi e abiti raffinati, automobili, televisioni, nuove americhe. Nel backstage si continua però a morire sul lavoro, ad ammalarsi, a necessitare di necessità imperanti. Non muore per mare il pescatore o in guerra il soldato, ma il cancro impera democratico: dal feto all’anziano vige la par condicio.

Vi presento allora Augusta (etimologicamente la Grande) od originariamente Megara Iblea, figlia della primordiale Magna Graecia, scrigno di amabili resti obliati tra le erbacce; Augusta città-fortezza di Federico II di Hoenstauffen, giusto un omuncolo da poco che per diletto forse o per tedio qui fece erigere uno degli esemplari più significativi di castello svevo del territorio nazionale, un tempo maestoso punto strategico-militare insieme ai forti marittimi di Garsia e Vittoria ed oggi relitto riemerso di un disastroso naufragio storico; Augusta detta isola delle palme, semplice omaggio agli anni in cui di queste piante se ne vedeva giusto qualcuna in più che non semplicemente un  sofferente gruppo spartitraffico; Augusta nata dal mare come Afrodite e come questa bella, prima che i divieti di balneazione avessero ovunque motivo di esistere.

Insomma quella che vi posso, in onestà, presentare adesso è la sola Augusta, SR, vertice del triangolo industriale, meglio noto come triangolo della morte, insieme a Priolo e Melilli.

Una vera e propria Toxicity: e qui il gioco di parole, preso in prestito dal titolo di un brano dei System of a Dawn, cade a fagiolo.

E così, <<somewhere between the sacred silence and sleep>>, venne segnato il destino di un popolo, allora ignaro, alla dannazione.

Perciò Augusta la odio et amo: non so come questo sia possibile, ma così è e mi tormento.


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