Asbesto & co, hacktivism alla siciliana «Anonymous? Usa metodi sbagliati»

Che Palazzolo Acreide, città di neanche diecimila anime in provincia di Siracusa, sarebbe diventata un polo d’attrazione per hacker non se lo sarebbero aspettato in molti. E invece c’è il Poetry hacklab – costola diretta del catanese Freaknet medialab – uno spazio libero e autogestito, in cui un gruppo di informatici ha pure messo in piedi un museo di ruderi della tecnologia. «Speriamo di aprirlo al pubblico intorno a giugno», spiega Gabriele Zaverio, online Asbesto, che nel 1994 ha riunito i suoi amici etnei in un’organizzazione ad alto contenuto nerd che dura ancora oggi.

«La nostra storia inizia nella redazione dei Siciliani, il giornale di Giuseppe Fava», racconta Gabriele Asbesto. Fava era stato ucciso dieci anni prima dagli uomini del clan Santapaola, ma i suoi redattori continuavano il suo lavoro. E in una stanza con un paio di computer connessi tra di loro nasceva la prima rete catanese. «Ci appoggiavamo alla linea telefonica per chattare e condividere i file», ricorda l’informatico, che all’epoca era poco più di un ragazzo e adesso ha 43 anni. Si connettevano di notte, perché costava di meno, e collezionavano denunce anonime, creavano cd-rom a mo’ di archivio, mettevano insieme delle vere e proprie banche dati che servivano al lavoro del giornale antimafia catanese.

Ma per mettersi a fare ricerca sui sistemi informatici, lo spazio dei Siciliani non era abbastanza: «Un centro sociale ci ha offerto una stanza e noi abbiamo accettato ben volentieri, anche perché condividevamo le idee degli occupanti». Era l’Auro, che dov’era all’epoca è ancora, in via santa Maria del Rosario, a poche decine di metri da piazza Università. «Siamo nati come un club di smanettamento – ride Gabriele – Io stavo studiando, poi mi sono reso conto che stavo bene in quel modo lì e ho rinunciato alla laurea, perché al pezzo di carta non ci credo». Mai laureato, Asbesto è stato il fondatore di una rete di hacker che adesso ha collaboratori in tutt’Italia. Ciascuno di loro condivide l’obiettivo: «Fare hacktivism, diffondere la conoscenza attraverso i mezzi a nostra disposizione». Niente a che vedere con l’immaginario comune, in cui l’hacker è impegnato a distruggere i colossi del web. «Sarebbe sciocco, alcuni di noi lavorano alla sicurezza di Facebook e Amazon, per esempio – sostiene – Che interesse avremmo a distruggere la sera tutto il lavoro che facciamo durante il giorno?». Ma a guardare quello che succede oggi, i continui attacchi di Anonymous ai siti istituzionali, c’è qualche domanda da farsi. «Possiamo anche condividerne le motivazioni, ma non i metodi – afferma ancora il fondatore del Freaknet – Sono ragazzini e per fare quello che fanno non c’è bisogno di essere particolarmente bravi: i siti sono progettati malissimo e sono facili da bucare». Parola di esperto.

«Adesso siamo diventati parte integrante di Dyne.org, una fondazione di Amsterdam che si occupa di sviluppo di software». Essenzialmente per la sicurezza in rete, ma anche per garantire la privacy e l’anonimato online. Nel tempo che resta, Asbesto e i suoi – «A Palazzolo siamo una decina» – catalogano le oltre duemila macchine che andranno a comporre il Museo dell’informatica funzionante. «Abbiamo raccolto vecchi computer, Commodore di primissima generazione, perfino una calcolatrice da tavolo elettromeccanica Olivetti del 1948». Alcuni li hanno ricevuti in regalo, altri li hanno cercati nella spazzatura o trovati nelle discariche. Il risultato finale è un catalogo nutritissimo. Pieno di apparecchi anziani, ma in grado di accendersi e dare segni di vita. «Stiamo facendo un lavoro di restauro che è simile a quello del filologo». Il paragone può sembrare azzardato, ma Gabriele Zaverio prosegue: «Cerchiamo di riportare alla loro forma originale tutti i pezzi che abbiamo, facciamo un restauro estetico che non sia invasivo». E nel caso in cui abbiano dubbi su come intervenire: «Cerchiamo della letteratura, ci documentiamo, tentiamo di portare a termine un lavoro pulito». Però lui si sente più che a metà dell’opera. «È stato complicato trovare un posto da affittare, perché ci serviva che fosse al piano terra», visto che alcuni calcolatori pesano più di una tonnellata. Adesso la sede c’è, anche se è chiusa al pubblico. «Ci saranno due sale espositive, un laboratorio per fare dei corsi di alfabetizzazione informatica e una biblioteca», afferma. L’ingresso, probabilmente, sarà gratuito. «Ci piace molto l’idea del biglietto all’uscita». Ancora la filosofia dell’open source: paghi se sei contento del servizio.

[Foto del Museo dell’informatica funzionante su Facebook]

Luisa Santangelo

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