L'inchiesta Araba Fenice ha fatto emergere le minacce e le imposizioni che Salvatore Giuliano e il suo gruppo avrebbero perpetrato su produttori locali e distributori, soprattutto napoletani. Due anni fa Coldiretti aveva denunciato il clima di terrore. «Ma solo uno ha denunciato»
Mafia, il monopolio delle angurie nel Siracusano «Per non darle al boss alcuni le lasciavano a terra»
«Io mi spavento che mi bruci le serre». Nelle campagne della zona Sud del Siracusano Salvatore Giuliano comandava incutendo terrore. Scarcerato nel 2013, dopo vent’anni dietro le sbarre, il boss di Pachino avrebbe costruito un sistema grazie al quale ha tenuto in pugno piccoli produttori – come quello che avrebbe esplicitamente manifestato le sue paure davanti a colui che è ritenuto il numero uno del clan Cappello a Siracusa – distributori e acquirenti della grande e media distribuzione, soprattutto napoletani. E così, negli ultimi anni, è riuscito a monopolizzare il mercato delle mini angurie, prodotto caratteristico della zona e largamente presente nelle serre.
La mediazione di Giuliano, tramite la sua azienda La Fenice srl, «era imposta», scrivono i pubblici ministeri della Direzione distrettuale antimafia di Catania che hanno condotto l’operazione Araba fenice. «I coltivatori – continuano – non potevano cedere direttamente la loro produzione. A loro volta anche gli operatori della piccola e grande distribuzione dovevano trattare con Giuliano e il suo gruppo per poter acquistare i prodotti. Ad essere compromessa era la libertà negoziale sia di scelta del contraente, sia riguardo al prezzo di mercato, sia riguardo alla facoltà di scegliere se avvalersi di una mediazione o farne a meno. Il danno per gli imprenditori locali, su entrambi i versanti (produttori o commercianti), era costituito in primo luogo dalla perdita della libertà di impresa e in secondo luogo dal puro peso economico della provvigione, posto che la mediazione de La Fenice non apportava alcun valore o servizio aggiunto alle imprese».
Giuliano avrebbe imposto ai produttori delle mini angurie una provvigione del 5 per cento, cioè 5-10 centesimi al chilo da pagare a fine stagione, cioè a giugno. Un affare da centinaia di migliaia di euro ogni anno. E chi non accettava avrebbe subito intimidazioni e minacce. Come successo nel maggio del 2015 a danno della società agricola Niba srl. È lo stesso proprietario a raccontare agli investigatori della visita ricevuta dai fratelli Aprile (Giuseppe, Claudio e Giovanni), tutti al soldo di Giuliano e arrestati insieme a lui. I tre si sarebbero lamentati del fatto che la Niba stava continuando a commerciare angurie senza il loro permesso e senza lasciare una provvigione. Un caso ormai isolato sul territorio ma che andava subito stroncato. «Bel magazzino questo, dobbiamo fare molta attenzione», sarebbe la frase pronunciata dai fratelli Aprile prima di lasciare il magazzino della Niba.
Chi si opponeva al sistema rischiava di rimanere con la frutta a terra. Come sarebbe successo al produttore Massimo Bruno che si sarebbe rifiutato di cedere le angurie al gruppo Giuliano. Per ritorsione, l’anno dopo, gli avrebbero fatto terra bruciata intorno imponendo al distributore concorrente di non prendere i prodotti di Bruno. «Massimo Bruno qui niente! – dice Vizzini intercettato mentre ricostruisce la vicenda – Glieli hanno lasciati a terra… i meloni, i meloni di acqua… tutto a terra gli hanno lasciato».
Negli ultimi quattro anni sono stati diversi i produttori nella zona di Pachino che hanno preferito non raccogliere la frutta pazientemente coltivata, piuttosto che consegnarla ai Giuliano a prezzi imposti da loro. «È stata, in alcuni casi, la forma massima di ribellione che siamo riusciti a ottenere». A parlare è Pietro Greco, da un paio d’anni presidente Coldiretti a Latina, ma fino al dicembre del 2016 numero uno dell’associazione dei coltivatori a Siracusa e Ragusa. E in quella veste, nel maggio del 2016, aveva lanciato l’allarme: «Il mercato dei meloni a Pachino è drogato dagli intermediari e gli agricoltori sono costretti a vendere a prezzi imposti», diceva. Un grido disperato, «frutto di decine di messaggi di piccoli produttori che mi chiedevano di fare qualcosa», racconta adesso a MeridioNews. «C’era un clima di terrore – continua – e le mie denunce mi sono costate pure delle minacce, ho ricevuto qualche telefonata anonima in cui mi invitavano a rimanere fuori da questo sistema, a farmi i fatti miei». Greco si è confrontato con la Prefettura e con le forze dell’ordine, cercando di portare i piccoli produttori vessati a denunciare. «Ma solo in un caso ce l’abbiamo fatta – dice – perché c’era molta paura, le aziende di notte subivano danni. Molti hanno preferito lasciare il raccolto a terra per evitare guai»
Il gruppo di Giuliano sarebbe riuscito a imporre il monopolio anche alla media e grande distribuzione, soprattutto ad alcune ditte campane che si riforniscono nella zona Sud della provincia di Siracusa, con cui, scrivono i pm, «avevano stretto un rapporto esclusivo». «Giuseppe Vizzini – ricostruiscono gli inquirenti – va a Palma Campania per accordarsi con i titolari della Bellortaggi, in modo che tutta la merce prodotta nelle serre di Pachino passasse dalla Fenice (l’azienda di Giuliano ndr)». I contatti sono frenetici e si allargano a numerosi distributori. «Quasi nessuna azienda che prima veniva ad acquistare da fuori – spiega l’ex presidente di Coldiretti Greco – ha continuato ad avere contatti diretti con gli agricoltori, soprattutto i napoletani. Così i prezzi imposti andavano bene per il gruppo Giuliano, non certo per i piccoli produttori costretti a vendere a prezzi bassissimi».