Lo scrittore toscano Alberto Prunetti sta girando la Sicilia per presentare il suo libro Amianto – Una storia operaia. Protagonista il padre Renato, operaio metalmeccanico morto nel 2004, la cui vicenda si intreccia a quelle degli operai siciliani che hanno lavorato a stretto contatto con l'omicida bianco
Amianto, un libro sul killer della classe operaia Dalla Toscana a Gela, le storie dei lavoratori
Col libro Amianto – Una storia operaia, Alberto Prunetti ha vinto il premio scrittore toscano dell’anno per il 2013. Da allora ha percorso su e giù l’Italia, raccontando l’iter lavorativo ed esistenziale di suo padre, che in questo caso coincidono. È la storia di Renato, metalmeccanico trasfertista morto nel 2004 per aver lavorato a stretto contatto con l’amianto. In questi giorni il figlio Alberto sta affrontando un minitour per la Sicilia – organizzato da Officina Rebelde – in cui racconta questa vicenda, drammaticamente simile a quelle che riguardano i territori attorno ai grandi impianti industriali della regione, ovvero Gela, Augusta e Milazzo. «Mio padre ha lavorato anche in Sicilia, allo stabilimento di Priolo – racconta lo scrittore -. Eppure persino i medici accusavano lo stile di vita e non analizzavano mai il tipo di mansione che faceva o le sostanze con le quali veniva a contatto».
Gli operai in genere non scrivono le loro storie. Forse c’era bisogno di recuperare una memoria operaia, da parte dei figli che hanno studiato. «Se dovessi trovare una formula per riassumere il libro – spiega Prunetti – direi che è la storia di un’ingiustizia, che percorre come corrente elettrica appunto la vicenda che ho narrato. Tentativo che si chiude con un contenzioso giuridico che suona come una beffa, nel senso che viene riconosciuto il prepensionamento ad uno che è morto da sei anni. Il libro è anche il tentativo di narrare lo sviluppo industriale italiano, le nocività di questo sviluppo, l’altra faccia del boom economico. La storia industriale italiana è la storia dei grandi capitani d’industria: Mattei, Agnelli, i padroni. E non è mai la storia dei subalterni, di quelli che facevano i turni, di quelli che le valvole le aprivano e le chiudevano».
Alberto quasi sorride quando ricorda di essere stato concepito a Casale Monferrato, luogo emblema delle tragedie che la sostanza bianca, vagamente simile alla farina nella consistenza, ha provocato. Nato sotto il segno dell’amianto. «Io però non volevo raccontare mio padre come una vittima e l’ho accomunato pure a Steve McQueen». Il famoso attore dalla vita spericolata, non molti lo sanno, è morto per via di un tumore contratto proprio a seguito dell’esposizione all’amianto che aveva avuto da giovane, in quei lavori usuranti che non aveva mai dimenticato. «Nessuno sapeva – dice Franco Famà, presidente dell’Osservatorio nazionale amianto di Gela -. Si tornava a casa tutti bianchi, con l’amianto sparso ovunque per il corpo. Lo sappiamo adesso che le prime ricerche che indicano l’amianto come una sostanza pericolosa risalgono al 1908. Quando qualcuno si ammalava dicevano che era bronchite. In seguito, quando sono aumentate le morti, si decise di licenziare gli anziani. Siccome il periodo di incubazione dei tumori è molto lungo, intorno ai 10-20 anni, quando l’ex lavoratore moriva non aveva più da tempo nessun rapporto con l’azienda».
Un lavoratore dice: «Noi abbiamo visto i nostri amici e colleghi morire». Un altro ancora racconta: «Io ho lavorato per 43 anni allo stabilimento. Nel 2012 sono andato a fare una Tac e l’ho fatto presente alla dottoressa. Lei mi rispose di tenermi a bada e poi mi rivelò che avevo l’asbestosi. Io vivo con un killer silenzioso nei polmoni. Chi riscontra una patologia legata all’amianto deve avvisarne la magistratura, è la legge». Mentre la Procura di Gela continua, a seguito delle continue denunce dei lavoratori, la sua opera di mappatura dell’amianto all’interno della Raffineria, c’è da ricordare che ci sono ancora 2200 scuole in Italia che hanno il nocivo minerale al proprio interno. C’è anche negli ospedali, negli uffici pubblici, davvero ovunque. Lo Stato le chiama esposizioni e, se accerta un’esposizione continua per 15 anni, riconosce il beneficio. A spese della collettività.