Ciò che mi colpì, nel passaggio dall’allora scuola elementare (oggi primaria) all’allora scuola media (oggi secondaria di primo grado) non fu tanto – si era nel 1962 – la presenza di nuove materie che avremmo dovuto studiare assieme a quelle che già conoscevamo, quanto il fatto che ad insegnarle non sarebbe stato più un solo, […]
Addio al musicologo Domenico De Meo: il ricordo di un ex allievo
Ciò che mi colpì, nel passaggio dall’allora scuola elementare (oggi primaria) all’allora scuola media (oggi secondaria di primo grado) non fu tanto – si era nel 1962 – la presenza di nuove materie che avremmo dovuto studiare assieme a quelle che già conoscevamo, quanto il fatto che ad insegnarle non sarebbe stato più un solo, o una sola, docente, ma uno stuolo di professori e professoresse.
In quegli anni la scuola italiana viveva una stagione di rinnovamento e si accingeva ad una nuova riforma dopo quella, epocale, realizzata qualche decennio prima da Giovanni Gentile. Così anche a Belpasso ai giovani che, finita la scuola elementare, si accingevano a continuare gli studi si presentava, assieme alla tradizionale scelta tra avviamento professionale o scuola media, il nuovo percorso rappresentato dalla scuola media sperimentale, primo passo verso la istituzione della scuola media unica (legge 1859 del 31 dicembre 1962). Non essendoci un edificio capace di ospitare tutte le classi con i relativi laboratori (evidentemente quello dell’edilizia scolastica non è solo un problema dei nostri giorni) gli studenti erano dislocati su più plessi: uno in piazza Duomo in coabitazione con la scuola elementare, uno in via Roma, all’angolo con la diciottesima traversa, in una bella casa patronale con un ampio cortile che negli anni Settanta sarebbe stata demolita per fare posto alla sede centrale della Banca Popolare di Belpasso ed uno alla Villa Martoglio, nella zona della Silva, dove per qualche anno avevano già funzionato gli uffici del Comune. Proprio questo era il nostro plesso, condiviso con alcune classi dell’avviamento.
Non ci mettemmo troppo tempo ad abituarci al nuovo stile fatto di orari provvisori, orari definitivi, suoni di campanella e tourbillon di insegnanti che uscivano ed entravano ogni ora. Fra questi un docente alto e robusto, con gli occhiali che sprizzava salute da tutti i pori come testimoniato dal particolare colorito delle sue guance. Proveniva da Catania e raggiungeva ogni giorno Belpasso con una fiammante fiat 1.100 bianca. Era il prof. Domenico De Meo, cui era toccato l’ingrato compito di accostare noi ragazzi di paese e monelli di strada a quella nobile arte che si chiama musica.
Per qualche settimana il nostro rapporto fu condizionato dalla suggestione che esercitava su di noi la sua stazza, ma con il passare del tempo le cose migliorarono e aspettavamo la lezione di educazione musicale per imprimere degli strani segni sugli spazi e sulle righe del pentagramma, per provare impegnativi gorgheggi con le note musicali e per esercitarci con il battere e il levare del solfeggio. Ma non ci fermavamo solo a questo perché il professore, facendo largo uso del suo geloso, il registratore che andava per la maggiore, si preoccupava anche di sensibilizzare il nostro orecchio e di educarci all’ascolto. E così, assieme alle espressioni più vivaci della musica popolare, ascoltavamo le arie più famose della musica lirica italiana, quasi sempre precedute da utili riferimenti agli autori. Indimenticabile l’esperienza con la Turandot di Giacomo Puccini su libretto di Giuseppe Adami e Renato Simoni, vissuta in tre fasi: iniziata con una presentazione generale, proseguita con la dettatura del testo e conclusa con l’ascolto completo dei tre atti. Impressionante l’attenzione con la quale ragazzi vivaci come noi seguissero con l’occhio i testi trascritti sul quaderno e con l’udito le performances di tenori, soprani, bassi, contralti e cori.
Finito quell’anno scolastico le nostre strade si sarebbero separate: noi ragazzi di paese saremmo rimasti con quel vago avvenir che avevamo in mente e il professore si sarebbe lanciato ad inseguire i suoi progetti, perfezionando, limando e incrementando quanto da tempo aveva cominciato ad impostare.
Nel momento della sua dipartita, avvenuta nella sua Catania il 15 ottobre, mentre la città rende omaggio al Maestro nella camera ardente allestita al Teatro Massimo Bellini, anche noi, monelli belpassesi degli inizi degli anni Sessanta, partecipiamo al lutto che ha colpito il mondo della musica catanese e chiniamo il capo di fronte ad un personaggio di così elevato spessore, insigne studioso, pianista, didatta, esegeta, protagonista di un’intensa attività filologica rivolta principalmente al repertorio protoromantico e romantico, e in particolare all’analisi delle partiture autografe di Vincenzo Bellini. E mentre lo facciamo gli chiediamo scusa per avere talvolta messo a dura prova la sua pazienza e ci permettiamo di considerare un privilegio l’averlo incontrato lungo il nostro cammino.