Dopo appena venti giorni che è al mondo le braccia di Diana sono già piene di buchi e aghi e il suo corpo sottoposto a ogni esame possibile. Soffre di una patologia di cui non si sa nulla, dovuta all’anomalia di un cromosoma. La madre: «Non esiste un’unica vera presa in carico del suo caso»
A tre anni affetta da malattia rara: 7 mesi per un esito La madre: «Tra incertezze e attesa dei finanziamenti»
«A guardarla sembra sanissima, ma è una bambina molla». Una frase che strappa un sorriso, ma piena di dolcezza quella di Valeria Scozzari, mamma di Diana, tre anni ancora da compiere. Una frase che a ripeterla, però, nasconde una portata drammatica notevole. Che significa molla? «Cammina, salta sulla sedia, sale e scende le scale, ha memorizzato ormai tutti gli schemi motori, ma i suoi muscoli non sviluppano il tono, sembra di toccare una mozzarella», racconta la mamma. La causa è una patologia rara non diagnosticata, sulla quale cioè non esiste nessuna letteratura, nessuno studio. E i problemi, per Diana, iniziano dopo soli venti giorni che si trova al mondo, tra crisi respiratorie e un mese intero trascorso facendo la spola dal reparto di Terapia intensiva a quello di Rianimazione. Comincia da subito un iter diagnostico fatto di esami di ogni tipo, la maggior parte con esito negativo.
L’unica cosa scoperta in quasi tre anni è l’anomalia di un cromosoma, anzi, di un pezzetto di questo cromosoma, sulla quale non si sa nulla, tranne quello che dicono i sintomi più manifesti della bambina: la compromissione del sistema immunitario, l’estrema delicatezza dell’apparato respiratorio con propensione a infezioni e polmoniti ricorrenti, l’ipotonia assiale, la perdita cioè del tono muscolare, circostanza che la rende più esposta a lussazioni e slogature. «Da quasi tre anni veniamo rimbalzati da un ospedale all’altro», prosegue la madre. Diana, infatti, è seguita a livello respiratorio dall’ospedale dei bambini Di Cristina, mentre dall’ospedale Cervello per tutti gli aspetti legati alle malattie genetiche. Il resto della storia è, per dirlo con le parole della mamma, uno «stillicidio di attese infinite». La bambina viene sottoposta a numerosi prelievi per esami generici e patologie principali a giugno 2015.
Alcuni esiti arrivano dopo quattro mesi, ma per il più importante, il cariotipo generale che fornisce informazioni sull’assetto cromosomico della bimba, passano addirittura 13 mesi. Solo a luglio 2016, infatti, salta fuori l’anomalia del cromosoma. Un lasso di tempo lunghissimo, giustificato dai medici con la necessità di mandare alcune provette fino al Gaslini di Genova e con la complessità degli esami da eseguire. Attesa riempita da ulteriori esami e indagini mediche sulla bambina, il cui fascicolo non è che un puzzle fatto da tanti pezzi: uno di competenza di reparti specifici del Cervello, un altro del Civico, altri ancora dell’ospedale dei bambini. «Non esiste un polo pediatrico che prende in carico un bambino seguendolo dalla A alla Z, tutto viene effettuato frammentariamente tra vari reparti o addirittura tra diversi ospedali – spiega la madre – Non esiste un coordinamento centrale e qualcuno che abbia chiara la situazione e prenda in esame tutta la cartella».
Problema al quale, secondo i genitori, si aggiungono la carenza di personale, l’incompetenza di fondo e una gestione dei tempi «pazzesca, inammissibile, specie quando parliamo di una bimba così piccola con problemi così delicati e non chiari, dove la tempestività di intervento è invece il fattore fondamentale nella possibilità di recupero», ribadisce la madre. Il 2017 inizia con un nuovo, ennesimo esame, relativo allo studio dei mosaicismi, quindi sempre legato ai cromosomi della bimba. Per eseguirlo basta prelevare un campione di saliva. A marzo, però, l’esito non arriva: il campione risulta insufficiente. Diana viene sottoposta, dopo pochi giorni, a un nuovo prelievo di saliva, vengono riempite addirittura otto provette. L’esito, questa volta, arriva dopo ben sette mesi, per la precisione, il 10 ottobre: «campione inadeguato».
«Un referto che però all’inizio ci ha lasciati perplessi per vari motivi, uno fra tutti è la data 17 luglio 2017: significa che ci sono voluti ulteriori tre mesi per dirci che l’esito era arrivato, perché? – si domanda la madre – Premesso che il reparto di ematologia che ha eseguito l’esame si trova all’interno del Cervello, questa volta non dovevano arrivare a Genova». Nel documento, poi, notano che si fa riferimento al campione di gennaio. Un particolare che mette in allarme i genitori: «Quale campione hanno esaminato? Che fine ha fatto quello di marzo?». Nessuna spiegazione. Anzi, una sì, ma che arriva solo dopo le pressioni della famiglia, che vuole vederci chiaro: una dottoressa che segue il caso di Diana spiega che i campioni sono stati esaminati entrambi e che l’inadeguatezza dell’ultimo non è dovuta a un’insufficienza quantitativa, ma alla composizione chimica della saliva della bambina, le cui cellule hanno un’emivita troppo breve e non si fa in tempo a raccoglierle e congelarle, che si sfaldano. Un esame, quindi, a cui Diana non potrà sottoporsi.
«Restiamo così, come sospesi, senza un piano – continua mamma Valeria – Aspettiamo che il neuropsichiatra decida se e come può essere sottoposta a risonanza magnetica. Mentre a gennaio il Cervello avvierà un progetto diagnostico con gli Stati Uniti, ma non si sa ancora se Diana avrà i requisiti per essere inclusa. È tutto in aria per il momento e il suo iter diagnostico resta un grande punto interrogativo». È questo il punto più dolente dell’intero sistema, secondo la famiglia della piccola. «Restiamo appesi ai tanti “non lo so” e “vediamo che progetti ci finanziano”. Una diagnosi insomma da rimettere un po’ alla casualità, un po’ ai finanziamenti che ci saranno, un po’ ai requisiti. In attesa di nessuno sa bene cosa. È molto grave», conclude secca la madre.
L’ospedale Cervello, intanto, conferma la spiegazione fornita già dalla dottoressa ai genitori della piccola Diana: nessun mistero in merito al secondo campione prelevato a marzo, anche quello è stato analizzato. «È stato accettato, cioè preso in carico, dal laboratorio, utilizzando la ricetta dematerializzata del primo campione, risalente appunto a gennaio 2017. È per tale motivo che il referto in uscita dal sistema informatico riporta come data di accettazione quella in cui è stata accettata originariamente la ricetta online. Nondimeno, l’analisi molecolare è stata regolarmente ripetuta sul secondo campione». Un’incongruenza quindi, quella delle date nel referto ultimo, solo apparente. «Il passaggio obbligatorio per l’erogazione di un esame specialistico è la presa in carico della relativa ricetta dematerializzata da parte del sistema informatico del laboratorio, che funziona in maniera unidirezionale e non permette di modificare a posteriori nessun dato relativo all’accettazione di una ricetta online».