«Non ci hanno mai parlato di sicurezza nei luoghi di lavoro, mai ci hanno fornito le mascherine, lavoravamo con delle cappe che erano fuori norma». In occasione del lancio del film ispirato alla vicenda - giudiziaria e umana - dei laboratori della facoltà etnea di Farmacia, il blogger di CTzen Pulviscolo Discolo racconta la sua esperienza negli spazi di un altro corso di studi scientifico. Attaccando la mancanza di formazione universitaria sui temi della sicurezza e proponendo all'università catanese un nuovo modo di fare formazione e ricerca
Con il fiato sospeso anche a Chimica «Racconto la mia esperienza nei laboratori»
Oggi (ieri per chi legge ndr) verrà proiettato a Catania il film Con il fiato sospeso che racconta la storia dei laboratori dellUniversità di Catania. Il film riprende una vicenda realmente accaduta, sulla quale ancora ci sono indagini in corso e denunce penali. La storia di ricercatori morti a 30 anni dopo aver frequentato i laboratori per fare ricerca.
Questa vicenda è stata seguita solo dal giornale per il quale ho il piacere e lonore di scrivere che è appunto CTzen. Forse è lunico caso in Italia dove ci sia una denuncia ed una causa del genere. Il silenzio dei media fino ad ora è regnato sovrano, ma con questo film probabilmente si inizierà a discutere meglio di questa assurda vicenda. Naturalmente io ancora non ho visto il film (esce oggi al cinema King e sarà proiettato fino a giorno 22 settembre) ma, proprio quando accadevano i fatti per cui oggi sono in corso le indagini, io ero nei laboratori di Chimica dellUniversità di Catania. E da tanto che avrei voluto scrivere questo post, oggi mi sembra il giorno giusto.
Dopo aver fatto gli studi classici al Liceo Mario Cutelli a Catania ho scelto di cambiare completamente direzione (anche se su questo avrei molto da dire) e ho scelto di iscrivermi alla facoltà di Chimica. Mi sono laureato in tempo in 5 anni e durante il periodo formativo stavo insieme ai miei colleghi tutti i pomeriggi in laboratorio. Parliamo del quinquennio che va dal 1998 al 2004. Oggi sono un libero professionista ed ho un mio laboratorio che gestisco insieme a mio padre. Vi devo dire con il senno di poi che in effetti quell’esperienza è stata paradossale. E, purtroppo bisogna dirlo, lo è tutt’ora. Poco o nulla è cambiato. Il percorso formativo prevedeva le mattine (tutte comprese il sabato) lezioni teoriche in aula e tutti i pomeriggi dalle 15 alle 19 lezioni in laboratorio.
Non ci hanno MAI parlato di sicurezza nei luoghi di lavoro, mai fatto un corso antincendio, mai parlato dei dispositivi di protezione individuale. Mai ci hanno fornito le mascherine, lavoravamo con delle cappe che erano fuori norma. Addirittura i laboratori erano dentro le stanze dei professori (questo almeno so che lo hanno cambiato). Da professionista ho dovuto ristudiare tutto daccapo. Lo so cosa state pensando: Mica luniversità può insegnare tutto. Beh, avrei preferito mille volte conoscere il D.lgs. 626 uscito nel 1994 poi modificato nel 2008 sia per avere più cognizione di cosa stessi facendo in laboratorio, sia per avere una base professionale da cui partire. Infatti oggi faccio tanta fatica a confrontarmi e a leggere documenti per la sicurezza (di grosse aziende come i petrolchimici presenti nel nostro territorio) scritte da ingegneri (con tutto il rispetto) che da un punto di vista chimico non hanno né capo né coda. Il rischio chimico in ambienti di lavoro è trattato in modo molto superficiale anche dalla normativa stessa. E mi chiedo se sia normale che in un percorso formativo così importante si possano tralasciare informazioni come queste.
Quando è scoppiato lo scandalo (come sempre bisogna prima che ci scappi il morto) si è cercato di correre ai ripari, ma senza mai coinvolgere gli studenti. Ci si è mossi sempre ad un livello accademico. E mi risuonano i racconti di professori di chimica che parlavano di documenti che dovevano firmare scritti dall’ente delluniversità che si (dovrebbe) occupare di sicurezza dei luoghi di lavoro, nel quale non mi risulta che ci sia nemmeno un chimico, scritti senza avere una coerenza scientifica. La cosa che mi preoccupa parecchio e che oggi è tutto ancora così. La sicurezza nei luoghi di lavoro in Italia è una continua emergenza, ma lo è perché non viene nemmeno studiata nelle Università. Si formano i futuri professionisti senza che se ne sappia nulla. Però ogni anno si contano i morti ed oggi si contano i morti anche delle persone che vivono vicino le fabbriche. Se noi, che siamo del settore, non conosciamo la normativa, non veniamo formati su questi argomenti, come pretendiamo che un operaio o un cittadino possa capire cosa è pericoloso per la sua salute e cosa non lo è?
Penso sinceramente che il percorso formativo sia delle Università che delle Scuole sia profondamente da rivedere. Gli studenti sono numeri costretti a stare in aule brutte, sporche, fredde e senza alcuna sicurezza, stipati in 30 in una classe nel periodo più bello della propria vita (fino, se va bene ai 25 anni). Ti levano lanima, ti fanno morire dentro. Ed io mi ritengo fortunato perché ho finito il mio percorso di studi prima di tutte le continue riforme a cui assistiamo oggi. Ma, quando vado nelle scuole, vedo questi ragazzi che ballano sulle sedie, che vorrebbero uscire ed invece sono costretti a stare in questi luoghi in cui ormai la formazione, lantica formazione italiana è solo un miraggio. Tutta teoria studiata sui libri e nessuna pratica.
Riflettevo laltro giorno che gli sforzi fatti, dal sottoscritto ma anche da tanti altri che si battono per insegnare le buone pratiche, non ha un risvolto sul piano formativo. Non cè una facoltà in cui si parli a 360 gradi di sostenibilità, di agricoltura biologica, di energie rinnovabili, non è contemplato nemmeno che ci si possa formare in merito. Anzi parlare di queste cose nel mondo accademico è spesso un tabù. Se un ragazzo che ascolta una mia conferenza volesse approfondire e studiare quelle tematiche non avrebbe dove andare. Noi vorremmo che lUniversità si aprisse, che scegliesse un percorso formativo diverso, nuovo (e non alternativo come oggi si usa dire come le energie e poi alternative a cosa?) che si studiassero i veri effetti benefici delle piante, che nelle ampolle dei laboratori di iniziasse a mettere vere piante e non più sostanze tossiche provenienti dall’industria petrolchimica.
Si darebbe speranza, io oggi nel mio laboratorio privato sto iniziando a fare ricerca, collaboro con diverse aziende che ricercano (appunto) professionisti che li aiutino in un percorso (certamente difficile) mirato alla sostenibilità. Ma tutto questo dovrebbe avvenire dentro luniversità che è il luogo principe della ricerca, quella vera, e non quella che fa comodo alle lobby che oggi rappresentano una vera e propria zavorra che rende il cambiamento lentissimo. Se vado oggi a Chimica, trovo gli stessi insegnanti e gli stessi argomenti che ho studiato ormai 10 anni fa! Ma la ricerca deve essere 10 anni avanti, deve essere visionaria, deve essere stimolante e stimolata da menti fresche. La risposta che oggi si può dare alle morti dovrebbe essere quella di avviare un corso di laurea tutto incentrato sulla sostenibilità ambientale (ci sarebbero tanti potenziali docenti alternativi con formazioni dalle più disparate pronti a percorrere questa avventura). Sarebbe il primo in Italia (credo).
di Danilo Pulvirenti
Leggi il post sul blog Impatto zero.
[Foto dal film Con il fiato sospeso di Costanza Quatriglio]