Un esercito senza diritti che solo nel capoluogo conta almeno 300 unità e che domani aderirà all'iniziativa nazionale promossa dalla Cgil, per «costruire insieme ai ciclofattorini un futuro di dignità, tutele e sicurezza»
#NoEasyRiders, a Palermo la campagna per i diritti Alessio: «In Italia non è considerato un lavoro vero»
«Essere rider non dà alcuna garanzia, è più un momento di transizione. Non mi immagino fra 30 anni ancora in sella al motorino: spero in un lavoro migliore e più sicuro». Non ha peli sulla lingua Alessio Sanfilippo, uno dei tanti giovani, e meno giovani, che compongono la folta schiera di fattorini delle consegne a domicilio. Un esercito senza diritti che solo a Palermo conta almeno 300 lavoratori e che nel Paese ha assunto proporzioni ancora più vaste. Proprio il capoluogo è una tra le otto città italiane dove è in corso la campagna nazionale #NoEasyRiders, promossa dalla Cgil, per «costruire insieme ai ciclofattorini un futuro di dignità, diritti, tutele e sicurezza». L’appuntamento è domani alle 18 davanti alla sede di Social Food, in via Catania, 168, per un volantinaggio informativo sulle proposte della Cgil per i Riders.
E domani ci sarà anche anche Alessio, 25 anni, al terzo anno di scienze Politiche che nel tempo libero, da poco più di due anni, corre da una parte all’altra della città per consegnare pasti. «Ho cominciato per pagarmi gli studi e non pesare sui miei», dice e quasi subito ammette: «con il tempo, però, si è trasformato in un impegno a tempo pieno». E l’università? «Per ora mi sono preso una pausa dai libri. Il gioco, però, non vale la candela perché è una professione che non dà garanzie». Tra le tante note dolenti, la paga risicata: i guadagni non sono fissi ma direttamente proporzionali al numero di consegne, da un minimo di 3 euro, comprensivi del rimborso benzina di circa 70 centesimi. Una professione, poi, che richiede un elevato grado di flessibilità e spirito di adattamento, con spese che spesso ricadono sui lavoratori.
«Utilizziamo mezzi di nostri proprietà e tutti i costi sono a nostro carico – lamenta – e questo è sbagliato perché dovremmo avere garanzie che, come categoria professionale, invochiamo da tempo. Tutto trae origine dal fatto che non abbiamo un contratto regolare ma un semplice cococo. Nessuno di noi ha mai visto una busta paga, e così molti di quelli che per altre categorie sono diritti acquisiti a noi vengono negati, come la semplice richiesta di un prestito. Questo è uno dei punti che dovrebbe cambiare: è giusto dare un’opportunità ai giovani per dare loro la possibilità di entrare nel mondo del lavoro e del credito».
Annunciata da mesi dal ministro del Lavoro Luigi Di Maio, e persino dal PD, la proposta per una regolamentazione del settore e una giusta busta paga giace, tuttavia, dimenticata in un cassetto: «Qui in Italia il nostro non viene considerato un vero e proprio lavoro – sottolinea amaro – Se avessi la possibilità di avere un contratto regolare, con la garanzia di contributi e il diritto alla malattia potrei anche decidere di continuare. Sono diritti ritenuti fondamentali in tutti i contratti – conclude – purtroppo il cococo è proprio sbagliato alla base».