La mafia che continua a fare affari con le slot «Gliele porto là e le metto nel fruttivendolo»

«Cornuto, si va a nascondere le macchinette». È il primo luglio del 2016 quando Salvatore Testa scopre che Giovanni De Simone gli sta facendo le scarpe: dovrebbe gestire per lui il traffico di slot machines a corso dei Mille, imponendole a mò di pizzo agli esercenti della zona. E invece quel picciotto si fa gli affari propri. Alla faccia della famiglia mafiosa, retta proprio da Testa, che fa parte del mandamento di Brancaccio e che è stata sgominata ieri dall’operazione Maredolce 2. Piccoli screzi, comunque. Gli affari continuano ad andare bene da tempo. E quando nel 2017 gli agenti della squadra mobile riescono per la prima volta a intaccare gli affari della famiglia, i reggenti rimasti capiscono che devono mirare ad altri business. Si fanno più accorti, e cambiano anche alcuni nomi di riferimento.

Aldo Militello gestisce, insieme ai pregiudicati Testa e a Fabio Scimò, il settore dei giochi e delle scommesse. Fonda la società Megaslot srl, e tratta l’affare che servirà a destinare un immobile alla società di videopoker che opera per conto della famiglia mafiosa. È a lui, insomma, che tutti si rivolgono. «Un punto di riferimento tecnico ed operativo per tutte le problematiche connesse alla gestione del settore» scrivono gli inquirenti. Il metodo è collaudato: attraverso l’attività di gestione delle slot machines (in questo caso con la Cascio Roberto srl) venivano in realtà riciclate le somme provenienti dagli affari illeciti. Le macchinette, poi, vengono imposte al posto delle più classiche estorsioni, e anzi in alcuni casi insieme ad esse. Fabio Scimò invece è l’uomo di Piero Tagliavia, reggente del clan fino al 2015. Ed è lui che si occupa di imporre le slot agli esercenti commerciali, stabilendo in questo modo il controllo del territorio. C’è anche chi col pizzo ci guadagna. Sono quegli esercenti ai quali il clan fornisce «macchinette personali», cioè mini slot non regolarmente collegate in rete e che quindi possono incassare integralmente i ricavi senza pagare il Preu, ovvero la tassa sulle singole giocate che va direttamente all’Agenzia dei Monopoli per la concessione della licenza. 

Un sistema a suo modo efficiente, che però, ogni tanto si inceppa. Come quella volta che a De Simone viene affidata una slot e lui la porta al bar del figlio, appena aperto. Solo che i boss come Testa sono precisi, e infatti quello sbotta «eh, tu come ti permetti a pigliarti questa macchinetta intestata a quello». Al netto di qualche impaccio il business del gioco d’azzardo resta fiorente. E parte degli incassi serve alla famiglia mafiosa di Corso dei Mille per dare assistenza ai carcerati. La gestione delle mini slot è in definitiva attività normalmente gestita attraverso teste di legno e i cui proventi vengono conteggiati, seppur distintamente, in un unico bilancio mafioso. Quando serve, poi, Scimò e Testa mostrano gli artigli nei confronti dei riottosi che non vorrebbero farsi imporre le slot. «Gliele porto là e gliele metto nel fruttivendolo» dice il primo al secondo.

È comunque un altro l’episodio forse più particolare registrato dagli inquirenti. Il 26 giugno 2016 la sala bingo Tai Mahar (in quel momento sottoposta ad amministrazione giudiziaria nell’ambito di un procedimento di prevenzione contro esponenti della famiglia di Villagrazia) subisce una rapina. Gli autori del furto, però, non sanno che al suo interno la sala bingo ospita alcune macchinette da gioco riconducibili a Testa e Scimò. Un affronto che i due boss non possono accettare. E infatti si mettono subito in moto. «Ora, se i conti non tornano, questo deve abbuscare» dice minaccioso Testa, quando scopre insieme al suo sodale uno dei tre rapinatori. Che in un primo momento «si sono buttati negativi» (hanno cioè negato la paternità del furto, ndr) e poi, messi alle strette, acconsentono a un incontro coi boss (due di loro). 

Testa contesta perfino le modalità aggressive della rapina (una delle impiegate della sala viene presa per il collo), tanto che Massimo, il rapinatore sotto torchio, deve ammettere «che è successo? alla fine siamo sballati di testa, eravamo senza soldi». Il ragazzo tenta di giustificarsi sostenendo di non sapere che l’attività fosse d’interesse di Cosa nostra («e io non sapevo una cosa di questa»), ma viene redarguito subito dal boss, che gli dice «io non penso che non lo sapevi, non lo sai che era tutta una cosa?». Dopo qualche momento di tensione («vedi che i soldi si devono uscire subito») l’accordo viene raggiunto: Massimo dovrà consegnare gli esatti proventi della rapina (poco più di ottomila euro, come dichiarato dall’amministratore giudiziario della sala Bingo) a una persona di fiducia, Giuseppe Di Fatta, che li farà poi avere al clan.

Come effettivamente accade. Alla fine il boss di Corso dei Mille, soddisfatto, può concedersi pure il lusso di essere magnanimo. Ricordando che in fondo gli incassi delle slot servono, in parte, ai detenuti e alle proprie famiglia. «Io ho parlato con queste persone e gli faranno pure un regalo – dice a Di Fatta – E poi c’è quel ragazzo perché penso che queste cose non si fanno. Specialmente che ci sono parentele… conoscenze! Sono andati a colpire chi è che è in sofferenza, e qua ci sono pure un sacco di persone che mancano. E noi facciamo tutto il possibile per campare queste persone. Dico, ti lascio immaginare».


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