Sono stati ben quattro i processi istruiti per fare luce sulla strage del 19 luglio ’92, e malgrado la sentenza del Borsellino quater parli finalmente di depistaggio di Stato, sono ancora tanti i tasselli da ricomporre. Avvocato Montante: «Impossibile dimenticare tutti i “non ricordo” detti sotto giuramento da uomini in divisa»
Via D’Amelio, il j’accuse del legale di Scarantino «Non falso pentito ma vittima di torture di Stato»
«Sono tanti 25 anni, possono essere la metà della vita di un uomo. Possono anche essere una vita intera, come lo è per me da quando è morto mio fratello. Se fosse stato ammazzato solo dalla mafia, però, forse non sarei qui e lo ricorderei al cimitero insieme ai miei familiari». Con queste parole amare Salvatore Borsellino ha dato il via al pomeriggio di confronto e dibattito in via D’Amelio. E continua senza giri di parole, puntando il dito, come fa ormai da 25 anni, contro quello Stato colluso che ancora oggi impedisce di conoscere tutta la verità sulla strage del 19 luglio 1992. «Come un soldato è andato in guerra per combattere un nemico e può succedere di finire uccisi – continua – Ma non da un fuoco amico che arriva alle spalle e proviene da chi, invece, avrebbe dovuto proteggerti e lottare al tuo fianco. Se tuo fratello muore così, sono ferite che non si rimarginano più, sanguinano ancora, soprattutto se dopo 25 anni non c’è verità né giustizia e i processi sono stati oggetto di depistaggi orditi da pezzi deviati dello Stato».
Ma oggi finalmente una svolta c’è stata, seppur piccola: la sentenza del processo Borsellino quater, che «ha riconosciuto che un balordo di quartiere è stato indotto a mentire, con torture fisiche e psicologiche, che certificano il depistaggio di Stato». Le carte sono tornate quindi alla Procura per riprendere le indagini, comprese quelle sulla famosa agenda rossa del giudice sparita dal luogo della strage. «Una svolta – dice Salvatore Borsellino – ma la strada è ancora lunga e difficile, come lo è stata finora. La ciclostaffetta è stata proprio una metafora ideale per dimostrare la fatica e il sacrificio che servono in questa lotta – conclude – Per la prima volta non mi sono sentito solo, ora so che bisogna camminare insieme agli altri». A dargli il cambio al microfono è l’avvocato Calogero Montante, legale dal gennaio 2016 di Vincenzo Scarantino, passato alla storia con l’appellativo di falso pentito. «Lui è una delle vittime di questo depistaggio – dice subito – Sono subentrato al legale precedente, ho letto ogni documento in soli 30 giorni e subito mi sono accorto di alcune stranezze che davano adito a numerosi interrogativi».
Uno fra tutti è il lungo lasso di tempo intercorso fra il suo arresto e l’inizio della collaborazione. «Cosa era successo nel frattempo?», si domanda illegale. Un altro aspetto che lo insospettisce si lega alla personalità di Scarantino: «Come poteva uno come lui aver avuto, anche con le conoscenze dell’epoca, un ruolo decisivo in quella strage? Era un balordo di periferia, uno buono per comprare le sigarette, un canazzo di bancata. Fu congedato dal servizio militare per labilità psichica. Come hanno fatto gli inquirenti a lasciarsi abbindolare da un uomo cosi? Già allora si sapeva che non era un uomo d’onore, non lo dicono solo i collaboratori poi». Un altro particolare che inquieta il legale riguarda la coincidenza perfetta di alcuni dettagli della ricostruzione della strage fatta da Scarantino con altri, identici, riferiti anni dopo da Gaspare Spatuzza, «il principe dei pentiti», lo definisce Montante. E poi i numerosi tentativi, negli anni, di Scarantino di dire pubblicamente che aveva detto delle cose non vere, dicendo di essere stato costretto. «Sono stato torturato a Pianosa», dice in una telefonata al giornalista Angelo Mangano, in una delle sue prime ritrattazione ufficiali. «Un burattino manovrato da altri, una macchina per le accuse».
«Non dimenticherò mai tutti i ‘non ricordo’ sotto giuramento pronunciati da persone dello Stato, questo mi ha segnato soprattutto come cittadino», conclude Montante. Gli fa eco, seduto di fianco a lui, l’avvocato Fabio Repici, legale di parte civile di Salvatore Borsellino. «’La strage di via D’Amelio è stata anche una strage di Stato’. È con questa frase che Salvatore rompe il silenzio nel 2007. Un uomo libero, sempre, e che ho potuto rappresentare in maniera altrettanto libera», dice l’avvocato Repici. Il suo discorso ripercorre le fasi principali del faticoso iter giudiziario avviato per arrivare alla verità. «Ricordo quando il clima cominciò a cambiare e la posizione della Procura diventava sempre più distante da quella mia e di Salvatore – racconta – Purtroppo l’esperienza mi dice che non è una rara anomalia, anzi. Oggi lo Stato, spesso, non sta al fianco dei familiari delle vittime di mafia e demanda loro l’accertamento della verità. Penso ai genitori di Nino Agostino, a quelli di Attilio Manca o alla famiglia Mormile, oggi qui presenti. Dobbiamo impegnarci tutti perché non scompaia la memoria di questi fatti».
Nel processo, secondo lui, entra a gamba tesa una sorta di proiezione di quello che l’opinione pubblica diceva contro Salvatore, reo di aver gridato per anni che nella strage di via D’Amelio c’era anche la responsabilità diretta dello Stato. «Dalle dichiarazione del giudice Giuseppe Ayala e quelle del giornalista Felice Cavallaro esce fuori un film horror sullo Stato – torna a dire – Scarantino non è un falso pentito, è vittima di torture di Stato, punto. Se lo fosse davvero, allora lo sarebbe anche Giuseppe Gulotta per la strage delle casermette di Alcamo Marina». Chi lo ha imboccato sapeva cosa era accaduto, secondo l’avvocato Repici. «Dobbiamo forse staccarsi dai dogmi, operare in modo libero», raccomanda. E sul depistaggio che prese il via 25 anni fa i suoi toni si fanno ancora più duri: «Un depistaggio che si chiama squadra mobile di Palermo, che si chiama Arnaldo La Barbera, che si legano a quel Bruno Contrada che settimane fa mi ha fatto vergognare di essere un operatore di giustizia – dice – Lui è un pregiudicato per concorso esterno in associazione mafiosa, ditelo a tutti, anche ai giornalisti che lo negano. È solo la proiezione ultima di quel tentativo per sotterrare ancora la verità. La magistratura non è un blocco granitico che salverà il paese, no. Come in tutte le categorie ci sono persone perbene e persone che non lo sono, giudicate in modo laico e libero per favore, solo così usciremo dallo sbandamento del presente».
In serata le parola del Capo dello Stato Sergio Mattarella: «La morte di Borsellino – dice – deve ancora avere una definitiva parola di giustizia. Troppe sono state le incertezze e gli errori che hanno accompagnato il cammino nella ricerca della verità sulla strage di via D’Amelio. Ancora tanti – conclude il Presidente della Repubblica – sono gli interrogativi sul percorso per assicurare la giusta condanna ai responsabili di quel delitto efferato»