L'inchiesta, coordinata dalla pm Caterina Malagoli, punta la lente su due uomini di spicco della mafia palermitana: Gregorio Di Giovanni, scarcerato da poco e ritenuto il mandante dell'omicidio Fragalà, e Giovanni Di Giacomo, boss detenuto che avrebbe potuto emanare una fatwa dal carcere per antichi dissapori
Omicidio Dainotti, si indaga su due piste Lotta di potere o vecchi rancori tra boss?
Sono due le piste su cui si stanno concentrando gli inquirenti che indagano sull’omicidio di Giuseppe Dainotti. Il 67enne boss di Porta Nuova ucciso stamattina in via D’Ossuna alla Zisa. La prima ipotesi porta la lente degli investigatori sulla figura di Gregorio Di Giovanni, altro mafioso di Porta Nuova. Scarcerato da poco, come il fratello Tommaso, è tornato all’attenzione dei carabinieri perché ritenuto il mandante dell’omicidio del penalista Enzo Fragalà. Indebolito dall’arresto di alcuni suoi uomini, finiti in cella proprio per l’agguato all’avvocato, potrebbe aver deciso di punire Dainotti che avrebbe approfittato delle ultime operazioni dei carabinieri per conquistare potere nel mandamento.
L’inchiesta, coordinata dalla pm Caterina Malagoli, prende in esame anche l’ipotesi della vendetta “ritardata” dei nemici storici di Dainotti, i boss Di Giacomo che, già nel 2014, avevano deciso di toglierlo di mezzo appena fosse uscito dalla galera. Giovanni Di Giacomo l’aveva condannato a morte dal carcere. Contro Dainotti aveva vecchi risentimenti. Secondo le ricostruzioni dei magistrati, Salvatore Cancemi, storico padrino di Porta Nuova, aveva chiesto proprio a Dainotti di uccidere Di Giacomo. Agli antichi dissapori si univa però il timore che Dainotti, scarcerato, potesse creare problemi. Il delitto, però, sfumò anche perché Giuseppe Di Giacomo, fratello del boss, incaricato di eliminarlo, venne assassinato. La pista, però, sarebbe debole perché i Di Giacomo – Giovanni e l’altro fratello Marcello sono detenuti – non avrebbero più il potere di una volta.