Barricate anglo-sicule

Olga: Un punto essenziale del ddl Gelmini riguarda la “governance”. Dopo aver prescritto il riordino dei Dipartimenti e avere ridimensionato le stesse Facoltà (si veda la puntata precedente, ndr) si fa la previsione di un Senato accademico molto più snello, di un CdA composto in buona parte da non accademici e di un direttore amministrativo degli atenei come “potere” indipendente dal rettore. Mi chiedo chi finirebbe col costituire l’organo di controllo sulla ricerca. Sarebbe un organo autonomo o sarebbe fatto unicamente di accademici?

Luciano: Prevedere che i Consigli d’amministrazione non siano più costituiti in base a criteri di rappresentanza per categorie e che non siano più presieduti dal rettore (che assommerebbe troppo potere) mi pare positivo. Ho invece riserve sul fatto che al Senato accademico venga attribuita soltanto la formulazione di ‘proposte e pareri in materia di didattica e di ricerca’, riservando al CdA ‘funzioni di indirizzo strategico’. Il CdA a mio avviso dovrebbe fissare le compatibilità economico-finanziarie, in modo che su tali basi il Senato elabori la programmazione didattica e scientifica e che infine il CdA traduca il tutto in bilanci di previsione annuali e pluriennali. L’infiltrazione di manager di nomina politica è un pericolo molto concreto. Più dei finanziamenti privati, che non ci sono, occorre fare i conti col finanziamento delle Regioni. Il “federalismo” regionale apre spazi di manovra e di contrattazione che possono far fallire qualsiasi innovazione. Va da sé ad esempio che  l’apertura dei consigli di amministrazione alle “forze esterne” può significare un controllo sociale sugli egoismi e le dissipazioni degli accademici, ma anche forme di “infiltrazione” di poteri corruttori.

Olga:
Questioni simili sono state dibattute in Inghilterra molto a lungo. Visto che le università devono trovarsi molti dei fondi da sole, i vari organi amministrativi hanno grosse responsabilità. I tecnici ritengono che gli accademici non abbiano le competenze necessarie per occuparsi di finanza; gli stessi prof. talvolta sono stanchi di dover pensare all’amministrazione oltre che a didattica, ricerca e burocrazia quotidiana. Nel 2006 il vice-rettore di Oxford ha cercato di cambiare il modo in cui Oxford è governata, cioè per mezzo di un senato accademico nel quale ogni membro del corpo docente ha diritto di voto (in pratica, una pura democrazia). Il criterio dietro la riforma era appunto quello di una maggiore razionalizzazione e migliore amministrazione delle risorse economiche da parte di manager, volta a ridurre l’indipendenza dei prof. È chiaro che c’erano pro e contro. Nessuno vuole che didattica e ricerca siano ingabbiati da manager che non ne capiscono niente (grosso modo la critica di coloro che erano contro), ma è pure vero che se Oxford ha grossi problemi finanziari questo è stato anche perché molti prof. non hanno le capacità e il tempo per amministrare. Il fronte del no ha pertanto unito vecchi conservatori arroccati nel privilegio (l’equivalente dei ‘baroni’ nostrani) e giovani barricaderi preoccupati dell’indipendenza della cultura (i cugini dei “movimentisti” italiani). La proposta alla fine non è passata, ma – a mio parere – il problema dell’amministrazione è stato solo rimandato per il momento. In tutto il Regno Unito da tempo c’è un attacco a quello che viene percepito come il potere conservatore e anacronistico dell’autonomia del corpo docente, particolarmente nelle storicamente “repubbliche autonome” di Oxford e Cambridge, anche se non si arriva alla sua totale denigrazione come avviene in Italia.

Luciano: In Italia il progetto di riforma è stato preceduto da un’efficace campagna stampa che dura ormai da più di un anno. Il punto di partenza fu la pubblicazione di un saggio, uscito presso un editore prestigioso: ‘L’università truccata’ di Roberto Perotti (Einaudi). Si trattava di un atto d’accusa contro il nepotismo, la scarsa selezione nel vagliare il corpo docente e la mancanza di incentivi alla produzione scientifica che ha trovato una vasta eco. Molti giornalisti ed opinionisti (uno dei più attivi è Francesco Giavazzi) hanno sviluppato in tutte le salse questo tema della “mala università” dando risalto ai più minuti fatti di cronaca. Per alcuni mesi i “baroni” universitari – accomunando in questa definizione la categoria dei professori tour court (senza  distinzioni di ruolo) – sono stati sul banco degli accusati, assumendo il medesimo ruolo di bersaglio dell’indignazione pubblica che un paio di anni fa si era riversata contro la cattiva politica della “casta”. Si sono  lette molte amenità, arrivando a sostenere (‘La Stampa’) che i docenti  universitari guadagnano 10.000 euro ed altre fesserie d’ogni tipo. Di fronte a questa offensiva e a questa montagna di  approssimazioni, i docenti, intesi come corporazione, hanno reagito debolmente. Solo di recente è stato pubblicato un eccellente volumetto curato da Marino Regini e da altri specialisti di sociologia dell’educazione: ‘Malata e denigrata. L’università italiana a confronto con l’Europa’ (Donzelli). Ma di questa “risposta” s’è parlato poco. Diciamo che la campagna stampa contro le malefatte dei baroni ha alimentato un pre-giudizio positivo nei confronti della riforma annunciata dalla Gelmini e che in questo ambito particolare il governo si presenta forte come non mai, sostenuto da un’opinione che si cura relativamente dei tagli finanziari, mentre esige giustizia per le infinite malvessazioni ed individua nei docenti universitari i responsabili di una gestione disastrosa delle finanze e profondamente corrotta per interessi particolari. C’è stata una forte delegittimazione. Ciò spiega lo stato d’animo con cui il ddl viene discusso all’interno delle  università, con un atteggiamento quasi carbonaro.

Olga: Da giovane ricercatrice che non ha nessuna speranza di insegnare in un’università italiana mi piacerebbe provocarti sulla ‘casta’ e stimolare una discussione su come si pensa (e come tu proponi) di gestire le assunzioni dei giovani e soprattutto di porre fine ai concorsi pilotati (che esistono eccome). Però magari su questo argomento facciamo una chiacchierata un’altra volta.

Luciano: Sui meccanismi concorsuali non ho opinioni. E’ troppo difficile. Questo discorso mi pare di competenza dei settori scientifico-disciplinari. Se ne viene a capo solo attraverso un dibattito interno, o – per impiegare una parolona – una “riforma intellettuale e morale” all’interno delle aree disciplinari. La stragrande maggioranza dei professori ordinari attualmente in cattedra è stata messa in ruolo ope legis dalla 382/80 e ha fatto ulteriore carriera con i concorsi locali della legge Berlinguer. Per il futuro, probabilmente, un meccanismo di incentivi e di penalizzazioni basato sui risultati della ricerca aiuterebbe più della scoperta del meccanismo ideale di concorso, che forse non esiste. In questo momento tutto quello che contrasta il localismo, la carriera riservata unicamente agli “interni”, va sostenuto con convinzione. Ma c’è il rischio che provvedimenti a favore degli “insider” finiranno col prevalere anche nella riforma Gelmini.

Olga: Certamente. Vedo in questo una grandissima differenza con il Regno Unito. Dove c’è una cultura civica e politica totalmente diversa, molto più matura. Come accademico ho potere e prestigio soprattutto se metto in piedi un sistema che mi fa onore: producendo pubblicazioni di alto livello, disseminando i miei allievi bravi in giro, circondandomi di ricercatori che realizzavano progetti competitivi. Pochi si sognano di dare posti a parenti e amici, con una logica clientelista o influenzata dalla politica: se costoro non sono all’altezza, ne va del loro stesso prestigio. Ma, insomma, torniamo al ddl, come pensi che le università si attrezzeranno per far fronte alle richieste di virtuosità finanziaria?

Luciano: L’insistenza ossessiva sulla “virtuosità finanziaria” delle università è preoccupante. Mi pare prevalente la tendenza di tipo demolitorio (o “reazionario”), mi pare si tenti una (cauta) reazione agli eccessi di populismo egualitario e sindacalista del passato ricostituendo  un certo potere responsabilizzante dei professori ordinari, snellendo  ipertrofie e concentrando poteri, etc.

Olga: Sono assolutamente d’accordo. Peraltro, mi sembra che si parli fin troppo di “finanze” e “virtù” e troppo poco di “numeri” e “qualità”, soprattutto il rapporto numerico tra docenti e discenti, un problema al quale si appassionano molti dei lettori di Step1. Faccio una domanda provocatoria: basta solo essere virtuosi e spendere poco? Anche se spendere poco vuol dire dimezzare i corsi fondamentali, eliminare i ricercatori non organici e non finanziare i laboratori?

Luciano: Ad esempio, nella discussione sulle virtù finanziarie, è stato omesso un fattore essenziale, la demografia del personale docente. Da ora al 2020 quasi tutti i docenti della  generazione della 382/80 andranno in pensione. Si tratta di un enorme ricambio generazionale, inevitabile nonostante la disperata resistenza di chi non vorrebbe andarsene prima che gli inchiodino in testa la cassa da morto. I nuovi ricercatori “tenure track” quando potranno completare il loro percorso? Se tutto andrà speditamente, ciò dovrebbe avvenire intorno al 2017. Per allora i soldi dovrebbero esserci. Il “tenure track” può essere istituito solo in previsione di un pensionamento. Nella legge questo punto non è  chiarissimo. All’interno degli atenei (almeno all’interno del mio) non se ne discute. Come se potessimo espellere un’intera generazione di ricercatori precari e poi guardarci allo specchio, contenti e soddisfatti per quanto siamo stati virtuosi.

Olga: Vedo che sei disposto ad appassionarti per la sorte dei precari, mentre non hai speso una sola parola a proposito del numero chiuso per gli studenti…

Luciano: Penso che non tocchi a me. Gli studenti, se vogliono, le loro barricate se le costruiscano da soli.


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