L’università, il governo e i docenti “responsabili”

Vorrei dire alcune cose semplici, anche a vantaggio degli studenti che intendono comprendere cosa sta accadendo e forse cosa accadrà negli Atenei italiani nei prossimi giorni: manifestazioni, occupazioni e tutto il resto.

Alcuni colleghi sono intervenuti con parole – giuste – di richiamo alle responsabilità di noi docenti, e dell’università tutta: delle nostre manchevolezze, e delle resistenze a valutazioni esterne del nostro lavoro.

So, però, che a volte si possono dire le cose giuste al momento sbagliato, o nel modo sbagliato, e questo può essere non meno serio che dire cose sbagliate.

Siamo in un momento nel quale sono state fatte alcune scelte politiche nei confronti dell’Università italiana, e in cui contestualmente è diffusa nell’opinione pubblica la convinzione che queste scelte siano giustificate dal comportamento irresponsabile dell’intero corpo docente.

Allora, per rispetto della verità, si deve non soltanto ripetere ciò che era vero già l’anno scorso: ossia, che l’università italiana ha bisogno di cambiare. In questo mutato contesto, si devono anche aggiungere alcuni enormi però.
Il primo è: questo governo ha fatto alcune scelte. Non ha dato seguito ad almeno tre iniziative dello scorso governo:

a) Stanziamento speciale di fondi per nuove assunzioni di ricercatori;

b) prosecuzione del processo che avrebbe dovuto portare ad una sistematica valutazione degli atenei e della ricerca;

c) patto con la dirigenza degli atenei per investire risorse aggiuntive in funzione di una loro amministrazione responsabile.

Insomma, lo scorso governo – certo tra indecisioni e inefficienze – aveva comunque avviato un processo di aumento dei finanziamenti come corrispettivo di un controllo dei comportamenti responsabili, nell’amministrazione come nella didattica/ricerca.

L’attuale governo non ha dato seguito a nessuno di questi tre punti. Il suo ragionamento si è basato sulla medesima premessa: l’università non va come dovrebbe, le risorse non sono utilizzate al meglio. Ma la conclusione è stata opposta: invece di aumentare le risorse controllando la qualità, si è deciso semplicemente di tagliare le risorse, già più basse (in alcuni casi molto più basse) rispetto ai Paesi con cui dovremmo competere.

Un secondo punto. Quando si dice che l’università italiana va cambiata, non si dovrebbe però dimenticare che essa produce laureati molto ben accolti anche all’estero. Un conto è deprecare il folclore delle dinastie di docenti, o il meccanismo sbagliato dei concorsi finti, un altro è inferirne che la nostra università non tenga nel suo complesso, e che nel complesso non svolga dignitosamente il proprio lavoro.

Voglio dire allora che dovremmo soprassedere sulle tante inefficienze ed inadempienze alla luce di una discreta tenuta media, e di alcune punte di eccellenza che permangono? No. Dico però che non è giusto, e non è saggio, lanciare ai docenti universitari un appello alla responsabilità in questo momento, senza aggiungere che – purtroppo – per quanto ci è dato prevedere – abbiamo di fronte un interlocutore politico che non mostra alcun interesse per individuare, riconoscere e premiare i comportamenti responsabili. E preferisce invitare tutti noi, quelli responsabili come quelli che non lo sono, a cercarci altri sponsor o – più semplicemente – chiudere bottega.

Con quali vantaggi per gli studenti, e per il Paese?


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