‘Il Padrino come i Narcos: non è mitizzazione, ma voglia di distinguersi’


Gadget e magliette nei luoghi turistici con coppole e lupare, dvd della fiction su Riina che vanno letteralmente a ruba, locali con nomi e arredamenti inequivocabili (The Godfather, eccetera). È come se lo sgomento e la presa di coscienza del dopo-stragi non esistano più. Abbiamo chiesto a Salvo Scibilia, esperto di comunicazione di massa e pubblicità, di analizzare insieme a noi questo fenomeno. 


Scibilia, che significa il proliferare di questi simboli e oggetti “mafiosi”? Cosa Nostra è davvero un retaggio del passato oppure si tratta di una specie di “rimozione collettiva”?

In termini di clichè, vedi certo cinema, vedi certe stereotipie della rappresentazione iconografica del mafioso, c’è una solida tradizione. Al cinema queste hanno avuto sempre una rappresentazione un po’ caricaturale sebbene “di successo”. Si prenda nel ’72 “Il Padrino”. Diciamo anche che una dose di folklore, di kitsch che diventa un armamentario per fare della paccottiglia da vendere, c’è sempre stata. Tutto sommato si vendeva il marranzano come colonna sonora della pala di fico d’india. Erano i due elementi scenografici su cui poi faceva la sua comparsa la lupara. Questo armamentario fatto di oggetti topici come la coppola, la lupara, il marranzano, i baffi, i capelli impomatati, le battute tipo “Ti faccio una proposta che non puoi rifiutare”. Il clichè c’è sempre stato. La pizza “Il Padrino”, la trattoria “I Due Picciotti”, sono fatti che occhieggiano un po’ alla mafia, però sono di tipo floklorico. Come quando a Roma fanno la parodia della vecchia romanità con il centurione. Se lei va a visitare il Colosseo, davanti ci trova i centurioni. Quelli con l’elmetto, la scopa in testa, la corazza…

Quindi la mafia sta diventando una sorta di brand?
Ancora non ci siamo. Siamo secondo me alla vigilia di questo. Nel senso che siamo ad un punto in cui si intravede che, così come nella giallistica, nella letteratura a sfondo territoriale, ancorata realmente o in maniera parodistica alla Sicilia, si nota che questo atteggiamento vende e può diventare quasi un mercato. La mafia diventa, o può diventare se insistiamo ancora su questa strada, un oggetto, un fenomeno di consumo. Si consuma il linguaggio della mafia, si consuma l’immagine della mafia, si consumano gli oggetti della mafia e così via. 

Un paio di anni fa esisteva la moda delle magliette con frasi inneggianti ai narcos colombiani. Adesso si portano t-shirt con la scritta “Il Padrino sono io ” o “Io sono mafioso”…
Questo è un tasto spinoso. Questa situazione si verifica perché, in assenza di forti tensioni ideologiche, di estremismi strutturati sia a destra che a sinistra – mancando questi due poli – e sussistendo la necessità d una provocazione estrema, fisiologica nel giovane – non voglio fare il pedagogista noioso però è così – allora lo sfogo assume o può assumere queste forme. Gli ambiti della provocazione praticabile sono o di tipo calcistico o provocativi di questo genere. Una volta c’era l’anarchia, le droghe leggere. Consumato tutto questo, consumate le ideologie, consumata la ventata del rock durissimo, in assenza di nuove invenzioni esiste la pratica della provocazione gratuita. Ma non sono provocazioni culturalmente supportate. Sono provocazioni senza obbiettivi, senza finalità. Si pensa: “Cosa posso dire per occupare una posizione estrema?”. Sono esigenze che più dell’ipotesi di mafia come brand, riguardano la necessità di posizionare in maniera originale e identificante chi è che le dice. È più un’esigenza di posizionamento della propria identità, da parte di gente che è stanca o insofferente di stare su pozioni mediane, e cerca una sua piccola visibilità, attraverso queste bravate”.

E che quindi si avvicina ad un modello sbagliato…
In realtà non ci interessa, perché il discorso che ci sta dietro non è né politico e nemmeno sociologico. L’intento è: “Cosa posso fare per fare rumore?” Se domani io e lei facciamo una ventina di magliette con delle maleparole… “Sono un figlio di buttana” e  me la metto, può essere che attecchisca. Potrebbe anche diventare una moda. Io non mi meraviglierei se si vendesse. E se si vendesse, le conseguenze sotto il profilo analitico sono che il desiderio di occupare un posizionamento estremo per dare una configurazione alla propria identità, prescinde dal contenuto. Sarebbe come una classica conversazione tra amici che dicono: “Usciamo , non voglio stare a casa”. “Ma per andare dove?”, “Non lo so, intanto usciamo”. Evasione allo stato puro, pulsione. La mia comunque non è un’analisi documentata, sono solo delle riflessioni. 

Un’ultima domanda. Ha sentito che Vittorio Sgarbi, nuovo sindaco di Salemi, vorrebbe creare un museo della mafia. Cosa ne pensa?
A me piace l’idea del museo, ma è difficile. Un museo in fondo celebra per raccontare, invece forse servirebbe un museo che imbalsami. La collezione di farfalle imbalsamate ci racconta della natura, ma la vediamo lontana. Questi musei, invece, hanno un forte richiamo alla realtà, sono vivi. Ecco, celebrare la mafia in maniera viva un po’ mi spaventa. Vorrei qualcosa che me la facesse vedere, che me la raccontasse, però tenendola lontana, non come una cosa viva. Mettere le statue dei padrini, ha senso se lo fa Lucarelli in televisione. perché lì svolge un discorso che sostiene una tesi, non ci lascia soli con una statua di un mafioso a grandezza naturale. Lì svolge solo una funzione sussidiaria, fornendo un appoggio alle cose di cui si sta parlando.


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