Trattativa, in aula depone Giancarlo Caselli «Se qualcuno remava contro lo dirà la Corte»

È durata circa cinque ore la deposizione dell’ex procuratore capo di Palermo, Giancarlo Caselli, nell’ambito del processo sulla trattativa stato-mafia. Ha iniziato raccontando la sua attività di lotta al terrorismo brigatista alla procura di Torino e del suo arrivo, nel ’93, a Palermo.

Le domande iniziali del procuratore aggiunto Vittorio Teresi riguardano la questione Riccio. «L’allora capo della Dia, Pappalardo – dice Caselli – mi parlò di Michele Riccio, che aveva incrociato un confidente (Ilardo, ndr) che poteva fare operazioni per catturare latitanti anche importanti. Pappalardo mi disse di stare attento. C’era un vincolo assoluto di segretezza su quello che stava avvenendo. Non volevamo sapere chi fosse il confidente, era innominato – continua – perché era pericolosissimo che uscisse il nome per non compromettere le indagini e la sicurezza del funzionario della Dia. La gestione del confidente, secretata e riservata, non era un caso unico».

Caselli spiega che i confidenti sono materia esclusiva della polizia giudiziaria: «Io non seguivo le indagini passo passo, avevo dato delega totale al pm Pignatone che mi raccontava il quadro generale. Mi disse che aveva la speranza di catturare a breve Provenzano. Speranza poi logorata. Lo stesso Pignatone – specifica – non sapeva che Riccio avesse già incontrato Ilardo». 

Su Ilardo, del quale non conosceva ancora il nome, Caselli ha raccontato di avere un obiettivo preciso fin da subito: fare del confidente un collaboratore di giustizia, proprio per sanare la situazione. «A un certo punto – dichiara – vengo a conoscenza del fatto che Riccio cessa di essere alla Dia e del passaggio al Ros e contestualmente Pignatone va a lavorare alla procurina. Ricordo – aggiunge Caselli – che quando ci fu incontro con Ilardo, portai con me il pm Teresa Principato che in quell’occasione prese appunti che però non ho mai visto».

I rapporti con la procura di Caltanissetta 
«Mi viene comunicato che Ilardo vuole collaborare – racconta Caselli – ed è stata la prima volta che ho sentito quel nome. Si va a Roma per coordinare le circostanze di collaborazione del confidente. Quel giorno era presente anche Tinebra, capo della procura nissena. Ilardo conferma di voler formalizzare il suo rapporto con autorità giudiziaria. Avrei voluto redigere – prosegue – un verbale di dichiarazione di intenti, ma non fu possibile». Ilardo, infatti, disse di voler iniziare subito la collaborazione per problemi familiari da risolvere. Ascoltarlo nuovamente fu impossibile, perché venne ammazzato.  

«La mia raccomandazione a Riccio fu quella di stargli vicino e di vigilare molto su lui per evitare cose spiacevoli e di iniziare a raccogliere in modo ufficioso e anche registrandole, le dichiarazioni di Ilardo, per accelerare i tempi e consolidare la collaborazione».

L’ incontro a Roma si tenne in un ufficio del Ros a Roma. Caselli dice di aver appreso dopo che «c’era una certa ostilità verso la procura di Palermo e che ci fosse una preferenza per Caltanissetta da parte del Ros. «Che Ilardo volesse lavorare con me – aggiunge – era stato manifestato, c’ era una speciale fiducia nei mie confronti. Anche in quella occasione non si entrò mai nello specifico delle indagini e – dice Caselli – non si parlò mai di faccende relative a Mezzojuso».

Caselli ha poi spiegato quelli erano i suoi piani per la cattura dei latitanti, basati su due parametri: specializzazione e centralizzazione ovvero quelli del pool Falcone-Borsellino. Veniva assegnato un latitante a ciascun magistrato o ad un pool, chiedendo di fare pervenire al magistrato titolare o al pool, tutte le informazioni. «Chiedevo una corrispondenza tra magistrati e forze di polizia – spiega – cosa che ho sempre sollecitato anche con una direttiva. Sarebbe stato un abuso affidare indagini solo a una forza di polizia. La ricerca era libera, l’ importante è che poi tutte le informazioni confluissero.  La mia era una direttiva precisa, era una necessità che l’ informazione arrivasse al sostituto designato». 

Il pm Sabella, come ieri ricordato in udienza anche dall’ex generale dei Ros Mori, che ha reso dichiarazioni spontanee, aveva evidenziato delle criticità in questo senso. «A me pare – precisa l’ex procuratore capo di Palermo –  che Sabella imputasse una certa divisione del Ros rispetto alla procura, ma non solo su Provenzano. C’erano le preoccupazioni, era fisiologico che se ne parlasse ma sempre nei limiti del perimetro della praticabilità. Se una forza di polizia ti porta un rapporto – chiarisce il magistrato – non puoi dirgli che non lo vuoi, o che deve lavorare con altri.  Non puoi farlo proprio per mantenere un livello ottimale di collaborazione». Caselli poi si rivolge alla Corte, presieduta da Alfredo Montalto, «Quando arrivai a Palermo – ha detto –  la situazione era un disastro. Fratture enormi. Io chiesi di ricominciare, andare avanti e fare squadra. Se qualcuno remava contro starà a voi stabilirlo presidente».

Sull’interrogatorio di Ciancimino 
«Prima di venire a Palermo – racconta Giancarlo Caselli – non sapevo nulla di Ciancimino. All’incontro per questo verbale di spontanee dichiarazioni, erano presenti anche Ingroia, il capitano De Donno e Mori, era  una prassi costante quella di far partecipare ai primi atti, i rappresentanti delle forze di polizia che stavano gestendo un dichiarante». Fu un interrogatorio quello, che non ebbe alcun esito investigativo o esito processuale. Caselli inoltre non fu mai informato del fatto che prima di quell’incontro, già a casa di Ciancimino ce ne fossero stati altri con esponenti del Ros. 

La fiducia nei confronti di Mori
«Dopo l’ arresto di Riina – prosegue il magistrato – il capitano Ultimo (De Caprio, ndr) disse di non andare a perquisire il covo per non compromettere un’indagine più vasta, lo chiese insistentemente e io mi fidavo perché era un eroe nazionale. Non potevo non fidarmi di Mori che era il generale del suo corpo di appartenenza, anche se nitrivo qualche dubbio». Caselli poi ha specificato che alcune della perplessità di Sabella erano personali ma altre erano riferite a fatti concreti come «il discorso mafia-appalti con l’inserimento da parte di Catania (la collaborazione del geometra Li Pera interrogato dalla procura di catanese, all’insaputa di quella palermitana ndr), i problemi connessi al covo di Riina, lo spazio di autonomia decisionale consentito al Ros, le ripetute denunce di De Donno alla procura di Caltanissetta contro Palermo, contro i pm Lo Forte e Pignatone e – conclude – il battage giornalistico continuo contro la procura di Palermo. Erano cose note a tutti, queste».


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