È la tesi degli investigatori che cercano l'inafferrabile boss ormai da 23 anni. Il procuratore Principato: «Non è possibile che dopo un lavoro costante, direi massacrante, sul territorio, lui continui la latitanza». Una vita nascosta condotta non solo nel Trapanese, ma anche in giro per la Sicilia e persino all'estero. «Quando sente stringersi attorno a lui il cerchio taglia i contatti con i fedelissimi finiti sotto indagine»
Mafia, nuovo colpo alla primula rossa «Coperto da protezioni di alto livello»
Matteo Messina Denaro, il superlatitante ricercato da ormai 23 anni, gode di «protezioni molto, molto importanti». Ne è convinta il procuratore aggiunto Teresa Principato, che a margine della conferenza stampa dell’operazione Ermes che ha portato all’arresto di 11 presunti fiancheggiatori della primula rossa, spiega: «Non è possibile che dopo tanti anni e un lavoro costante, direi massacrante, sul territorio, lui continui la latitanza». Su quella che il procuratore, da anni sulle tracce del boss trapanese e che ha coordinato l’inchiesta insieme ai pm Paolo Guido e Carlo Marzella, definisce «una certezza» si muovono gli investigatori. «Stiamo indagando su questo» spiega ai cronisti.
Intorno al capo di Cosa nostra, ormai dal 2010, gli investigatori hanno fatto terra bruciata. «Abbiamo arrestato poco meno di 100 persone che facevano parte della sua rete di contatti e che garantivano le sue comunicazioni, inclusa la sorella». È per questo che l’attenzione degli inquirenti adesso si concentra sulle «protezioni ad alto livello su cui vogliamo fare luce» ammette il procuratore aggiunto. Che di Messina Denaro traccia un vero e proprio identikit. «È una sorta di parassita che non tiene conto dei legami familiari, ma usufruisce dei soldi che i componenti della sua famiglia e del clan possono fargli avere» spiega.
Ma dalle indagini di Ros e Sco emerge anche un altro particolare. Matteo Messina Denaro, latitante dal 1993, in alcuni casi è stato all’estero. Il boss, secondo quanto ha rivelato Principato «non sta sempre nel Trapanese, ma si sposta dalla Sicilia e anche dall’Italia». In particolare, quando «sente stringersi attorno a lui il cerchio taglia i contatti con i fedelissimi finiti sotto indagine». Certo, anche se «potenzialmente potrebbe trovarsi dappertutto» spiega il capo del Servizio centrale operativo, Renato Cortese, la regola non scritta in Cosa nostra è che «il latitante più è importante, più deve dimostrare di fare il latitante a casa propria». Lasciare il suo “territorio di riferimento” sarebbe nel codice degli uomini d’onore una debolezza, che gli inquirenti sarebbero pronti a sfruttare.
Ma Giuseppe Governale, comandante del Ros, resta ottimista. «Sono fiducioso di poter chiudere in tempi ragionevoli questa latitanza – ha detto -. Dopotutto, non esistono latitanze interminabili e per tutti c’è una fine. È solo questione di tempo e motivazione del personale, che con costanza dovrà essere pronto a cogliere anche un eventuale errore del latitante». Per il capo dei pm di Palermo, Francesco Lo Voi, dal blitz Ermes emerge, comunque, una conferma: Cosa Nostra non si è camorrizzata. Al contrario «rimane un’organizzazione unica. All’interno di ciascun mandamento ci si occupa degli interessi del proprio territorio, ma questo non vuol dire che ciascuno operi in modo indipendente, al contrario le decisioni sono collegiali».
Le persone arrestate nell’ambito dell’operazione sono tutte «organiche e inserite nel tessuto di Cosa nostra, di assoluta fiducia del capo» ha spiegato ancora il procuratore. Insomma, secondo gli investigatori, gli 11 arrestati non sono «semplici tramiti con il capomafia, ma ricoprivano ruoli di vertice nelle cosche trapanesi». «Non bisogna farsi trarre in inganno dal fatto che fossero semplici allevatori – ha concluso il procuratore aggiunto Principato -: si tratta di fedelissimi di Messina Denaro, alcuni dei quali già arrestati in precedenza, con un peso all’interno dell’organizzazione».