Il quadro che emerge dal dossier dello Svimez è disarmante. I dati del 2014 mostrano come la crisi abbia pesato più sul Meridione rispetto al resto del Paese. Anche per la riduzione drastica dell'intervento pubblico. «Nel Mezzogiorno si rischia di trasformare la crisi ciclica in un sottosviluppo permanente»
Dal 2000 Sud Italia cresciuto meno della Grecia Il Pil di un siciliano metà di quello di un trentino
La distanza del prodotto pro capite tra Il Nord e il Sud Italia nel 2014 è tornata ai livelli di inizio secolo. Dal 2000 al 2013 il Meridione è cresciuto appena del 13 per cento, la metà della Grecia che ha segnato +24 per cento. Due dati disarmanti sintetizzano l’ultimo rapporto dello Svimez, l’Associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno. L’analisi del 2014 mostra chiaramente come la crisi abbia pesato molto di più sulle regioni meridionali, rispetto al resto del Paese. Non solo a causa del gap creato nel secolo scorso, ma anche per la riduzione drastica dell’intervento pubblico a sostegno delle imprese. Un quadro talmente cupo da spingere gli analisti a sottolineare che il Mezzogiorno rischia di «non agganciare la possibile nuova crescita e trasformare la crisi ciclica in un sottosviluppo permanente».
L’ultimo anno ha mostrato i primi deboli segni di uscita dell’Italia dalla più grande crisi del dopoguerra, anche se solo in Nord Est registra un lieve incremento del Pil. In questo contesto, però, il Sud non vede la ripresa. «Nel 2014 il prodotto interno lordo – si legge nel dossier Svimez – è calato nel Mezzogiorno del 1,3 per cento, rallentando la caduta già registrata l’anno precedente (-2,7 per cento). Il calo è stato superiore di oltre un punto a quello rilevato nel resto del Paese (-0,2 per cento). L‘economia delle regioni meridionali ha quindi affrontato il settimo anno di crisi ininterrotta: dal 2007 il prodotto in quest’area si è ridotto del 13 per cento, quasi il doppio della flessione registrata nel Centro-Nord (-7,4 per cento)». In sei anni in Sicilia il pil si è ridotto del 13,7 per cento. Nel 2014 in media ogni siciliano ha un pil di 16.283 euro, il più basso d’Italia dopo la Calabria. Per un abitante della Valle d’Aosta e del Trentino Alto Adige, le due regioni più ricche, supera i 36 mila euro, cioè più del doppio di quello dell’Isola.
«Le regioni del Sud – spiegano gli analisti – hanno risentito non solo dello stimolo relativamente inferiore rispetto al resto del Paese della domanda estera, ma anche della riduzione della domanda interna». Le poche industrie del Sud non riescono a esportare e, allo stesso tempo, sono penalizzate da un mercato interno paralizzato, o in contrazione. Tra il 2008 e il 2014 le famiglie meridionali hanno ridotto i consumi del 13,2 per cento. Flessione più che doppia rispetto al resto del Paese, dove si è registrato un -5,5 per cento. Tra i settori dove si spende meno anche quello dei generi alimentari, dove il calo negli ultimi sette anni è stato di oltre il 15 per cento. D’altronde è difficile spendere quando – sulla base dei redditi del 2013 – una persona su tre nel Sud è a rischio povertà relativa. Vive cioè in famiglie con un reddito al di sotto del 60 per cento del reddito familiare mediano nazionale. In Sicilia questo dato è, se possibile, ancora peggiore: il 41,8 per cento dei residenti è a rischio. Quasi uno su due, la percentuale più alta d’Italia. Nel Centro Nord una persona su dieci è a rischio.
A contribuire alla disastrosa situazione economica è anche la netta caduta dell’intervento pubblico a sostegno delle imprese in questi ultimi anni, che, denuncia lo studio Svimez, «è stata fortemente asimmetrica sotto il profilo territoriale, avendo colpito principalmente le regioni meridionali. Tra il 2008 e il 2013, mentre le agevolazioni concesse alle imprese del Centro-Nord sono diminuite del 17 per cento (da 3,2 a 2,6 miliardi di euro), quelle destinate al Mezzogiorno sono crollate del 76 per cento (da 5,5 a 1,3 miliardi di euro). Di conseguenza, la quota del Sud sul totale delle agevolazioni ripartibili territorialmente si è pressoché dimezzata, passando dal 63,5 per cento del 2008, al 33,2 per cento del 2013». In generale la spesa pubblica in Italia è diminuita, dal 2001 a oggi, di oltre 17,3 miliardi di euro. Di cui 9,9 miliardi di euro nel Mezzogiorno, dove si è passati da 25,7 miliardi del 2001 a 15,8 miliardi del 2013.
La crisi ha colpito l’industria manifatturiera del Sud in modo molto più pesante che al Nord. La contrazione negli anni di recessione è stata del 33,1 per cento nelle regioni meridionali, il triplo rispetto alla media italiana di -14,4 per cento. Di conseguenza, non si è trattato solo di un fenomeno di «espulsione dal mercato delle imprese inefficienti lasciando spazio a quelle più efficienti e produttive, ma di una erosione profonda della base produttiva, che ha espulso dal mercato anche imprese sane ma non attrezzate a superare una crisi cosi lunga e impegnativa. Ne risulta – sottolinea Svimez – che è difficile a questo punto valutare se l’industria rimasta sia in condizioni di ricollegarsi alla ripresa nazionale e internazionale».
«Un Paese ancora più diviso del passato e sempre più diseguale. I dati segnalano come la capacità delle regioni meridionali di rimanere, dal dopoguerra, comunque agganciate allo sviluppo del resto del Paese, sia ora sempre minore», denuncia Svimez che indica la strada per un’inversione di marcia: «una politica industriale che, oltre a favorire l’adeguamento e la ristrutturazione del sistema produttivo esistente, sia volta a sostenere l’ulteriore accrescimento delle dimensioni del sistema industriale», attraverso un «infittamento ragionato» delle imprese, raggiungibile solo con «l’innalzamento delle dimensioni medie e il sostegno ai processi di aggregazione delle imprese; il rafforzamento della ricerca, dell’innovazione e del trasferimento tecnologico; l’aumento del grado di apertura verso l’estero e il rilancio delle politiche di attrazione; il miglioramento delle condizioni di accesso al credito e ai mercati dei capitali; la riqualificazione del modello di specializzazione produttiva».
L’Agenzia per lo sviluppo del Mezzogiorno invoca infine strumenti compensativi da parte dell’Europa, come le già esistenti Zone economiche speciali (Zes), aree prevalentemente caratterizzate dalla presenza di un porto e di un’area retro portuale, in cui vigono specifici regimi di trattamento doganale, di esenzioni fiscali, di facilitazioni amministrative e di servizi alle imprese, con il principale obiettivo di attrarre investitori stranieri. «Le Zes – sottolinea Svimez – rappresentano la strada, intrapresa già da tempo da diversi paesi dell’Unione europea (come Polonia, Lettonia e Lituania), per utilizzare la leva fiscale ai fini dell’attrazione di investimenti, oltre che per favorire lo sviluppo del commercio internazionale. Nel Mezzogiorno esistono già le condizioni ideali per l’istituzione di Zes in diverse aree (in particolare, in Calabria, Puglia e Sicilia (porti transhipment di Gioia Tauro, Taranto e Catania); istituzione cui si dovrebbe rapidamente dare corso».