Mineo, sentenza per la morte di sei operai «Violazioni, fondi ridicoli e cattiva gestione»

Malfunzionamento, grossolano e ridicolo. Sono queste le tre parole chiave delle motivazioni della sentenza d’appello per la strage di Mineo. Tutte si riferiscono alla cattiva gestione del depuratore, in contrada Musculara, che ha portato l’11 giugno 2008, alla morte di sei operai comunali mentre lavoravano per la pulizia di una vasca. Le vittime sono Giuseppe Zaccaria, Natale Sofia, Giuseppe Palermo e Salvatore Pulici e due dipendenti della ditta Carfì: Salvatore Tumino e Giuseppe Smecca. Quest’ultimo, secondo quanto risulta dagli atti, era stato assunto da meno di 24 ore. I sei corpi vennero ritrovati sommersi all’interno del pozzetto di riciclo dei fanghi

Lo scorso 19 gennaio la terza sezione penale della corte d’appello di Catania – presieduta da Tiziana Carrubba, a latere Giuliana Fichera e Anna Maria Gloria Muscarella -, ha inasprito le pene per i sei imputati a vario titolo di omicidio colposo commesso in violazione delle norme sulla prevenzione degli infortuni sul lavoro. A cinque anni sono stati condannati il titolare della ditta Salvatore Carfì e il capo cantiere Salvatore La Cognata; tre anni ciascuno per il responsabile del servizio di prevenzione Giuseppe Virzì e l’assessore all’Ecologia Giuseppe Mirata. Tre anni e sei mesi, invece, sia per il dirigente dell’ufficio tecnico Marcello Zampino che per il responsabile Lavori pubblici Antonino Catalano.

Nelle 271 pagine della sentenza, i giudici di secondo grado hanno sottolineato la «cattiva gestione» dell’impianto. Per la corte – così come per la sostituta procuratrice generale Sabrina Gambino – gli imputati avrebbero dovuto procedere a una serie di adempimenti tecnici. Venivano invece violate le norme per la prevenzione degli infortuni, in particolare modo con «l’omessa redazione del documento di valutazione dei rischi per la sicurezza». Il ritrovamento dei corpi, ricostruisce la corte, ha dimostrato che nessuno di loro «indossava le imbracature né imbracature sono state ritrovate nel perimetro del pozzetto: non vi erano sistemi che potevano consentire loro di risalire in emergenza. Non avevano respiratori o mascherine». Nella sentenza, i giudici sottolineano come occorreva un piano per regolare tutte le fasi di discesa. «Piano che non è stato trovato». Assente anche un cartello «di avviso, in prossimità dei luoghi di possibile oggetto di esalazione di sostanze tossiche».

Il malfunzionamento dell’impianto sarebbe stato dovuto «all’intasamento di una grigliatura grossolana». In questo modo, i reflui in arrivo venivano scaricati «senza alcun trattamento sul suolo». I consulenti hanno affermato che per evitare l’intasamento non era sufficiente la pulizia giornaliera da parte di uno degli operai morti, dato che lo stesso addetto doveva provvedere ad altri compiti e i turni di lavoro non coprivano le 24 ore. Altra causa del cattivo funzionamento sarebbe stata dovuta al sovradimensionamento dell’impianto progettato per un numero di abitanti di gran lunga superiore rispetto a quello servito dal depuratore, con un conseguente cambio del tempo di permanenza dei liquami nelle vasche. «L’impianto è stato fuori servizio per lunghi periodi e durante il suo funzionamento non sono stati mai smaltiti fanghi; ciò coincide con la presenza di fanghi ispessiti e invecchiati anche nei comparti di sedimentazione che non dovrebbero invece contenerne». Maggiore è la quantità di fango che si accumula, maggiore è la quantità di gas che può rimanere intrappolata. Oltre alle esalazioni, per quattro delle vittime è stato «accertato come il liquame sia entrato nelle vie respiratorie». Sarebbero quindi annegati.

Del tutto insufficiente, poi, si legge sempre nella sentenza, il capitolato di spesa destinato al depuratore. «Il Comune di Mineo, a differenza degli altri Comuni che scelgono di affidare la gestione a ditte esterne, ha optato per una gestione in proprio per risparmiare sulla spesa». Ma dall’esame dei conti, gli importi stanziati sono stati «assolutamente ridicoli». Dal 2003 al 2008 «solo piccoli interventi non collegati, singole riparazioni, migliorie deliberate e realizzate senza alcuna programmazione e progettazione».


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I sei imputati, accusati a vario titolo di omicidio colposo all'interno dell'impianto comunale, sono stati condannati a pene che vanno dai cinque ai tre anni e sei mesi. I giudici sottolineano come nessuno dei lavoratori «indossava le imbracature, non vi erano sistemi per risalire in emergenza. Non avevano respiratori o mascherine»

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