Dai bagni allagati ai muri con la muffa: la vita ai limiti nelle case popolari della periferia di Gela

Nella periferia di Gela, tra le palazzine del quartiere Scavone, le pareti parlano. Non lo fanno con le parole, ma con crepe, colature d’acqua, muffa che si arrampica sui muri e un odore costante di umidità. È il linguaggio muto del degrado, quello che racconta la vita dimenticata di decine di famiglie che, ogni giorno, lottano per sopravvivere dentro case che minacciano di crollare. Via Bogotà è uno degli epicentri di questo abbandono. Qui, Carmelo vive con la moglie e tre figli piccoli. Da tredici anni occupa un appartamento dello Iacp (l’Istituto Autonomo Case Popolari) e da tempo ha avviato un percorso di regolarizzazione. Ma in questi anni, l’unica cosa che ha visto regolarizzarsi è il degrado.

«Il bagno è diventato una cascata. L’acqua cade in continuazione dal soffitto. Mettiamo i secchi, li svuotiamo, e li rimettiamo sotto. Non è più vita, è sopravvivenza», racconta Carmelo, seduto accanto a una parete nera di muffa. La perdita d’acqua che ha devastato il suo appartamento si è infiltrata nei pilastri della palazzina. Dall’interno ha cominciato a scavare la struttura, e adesso si nota anche fuori, come una cicatrice che taglia i muri e avverte di qualcosa che potrebbe accadere. Eppure, nonostante le numerose segnalazioni, nessuno è mai venuto a controllare. «Allo Iacp ho telefonato, scritto. Mi dicono che prenderanno in carico la segnalazione. Ma nessuno è mai venuto. Neanche per vedere».

Carmelo non è solo. In quelle stesse condizioni vivono decine di famiglie. La muffa ha invaso le stanze, gli infissi marciscono, i soffitti si gonfiano sotto il peso dell’umidità. Il disagio non è solo abitativo: è sanitario, sociale, psicologico. In un quartiere dove i servizi sono pochi, l’abbandono istituzionale è totale e la marginalizzazione si trasforma in una condizione permanente. «I miei figli dormono in una stanza dove la muffa ha preso tutto il soffitto. Non ho i soldi per andarmene. E non ho nessuno che mi aiuti. Dovrei andare ad occupare un altro appartamento, ma non voglio più commettere questi sbagli che mi sono già costati carcere e sofferenza», aggiunge Carmelo con lo sguardo basso.

Le palazzine dello Iacp a Scavone non sono solo case che cadono a pezzi. Sono il simbolo di una periferia che rischia di diventare un ghetto. Qui, chi cerca di mettersi in regola si scontra con la burocrazia, con gli anni che passano e con l’assenza totale di interventi. Le persone, come Carmelo, non chiedono privilegi. Chiedono sicurezza, vivibilità, dignità. «Sto provando a fare tutto come si deve. Non voglio niente di più. Ma almeno che questa casa non ci crolli addosso. Che qualcuno si prenda la responsabilità».

Il silenzio che circonda Scavone è assordante. Le crepe nei muri sono crepe nella fiducia, nel diritto all’abitare, nella speranza di poter cambiare le cose. Eppure, basterebbe ascoltare. Entrare in quelle case. Guardare quei soffitti. Parlare con chi ci vive dentro. Prima che l’umidità si trasformi in tragedia, prima che quella disperazione che oggi si tiene insieme con nastro adesivo e secchi d’acqua, diventi qualcosa di irreparabile. Prima, insomma, che sia troppo tardi.


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