Natale in Sicilia tra storia e tradizioni

da Rosaria Palladino
riceviamo e volentieri pubblichiamo

Mi offre la possibilità, molto ben accetta, di scrivere questo pezzo la rappresentazione di canti e racconti dal Regno delle due Sicilie con messa in scena a Siculiana di “e venne Natale” di Sara Favarò. Il testo teatrale, interamente in siciliano, ha preso spunto dallo scritto settecentesco “Viaggiu dulurusu di Maria Santissima e lu Patriarca San Giuseppi in Betlemmi, canzunetti siciliani di Binidittu Annuleru di la città di Murriali.”
I brani sono stati scelti ed elaborati da Sara Favarò e in parte già contenuti nel suo libro “Natale nei canti popolari siciliani” che dimostra che i cosiddetti canti popolari natalizi non sono popolari perché composti dal popolo, ma perché da questo fatti propri e veicolati. Canti e poemi concepiti da menti assai colte, anche erano alti prelati che sotto falso nome adoperavano la metrica e la lingua popolare quali mezzi di catechesi e, talvolta, anche di indottrinamento.
E’ stato fatto anche omaggio a Napoli, l’allora capitale del Regno, con l’esecuzione del canto settecentesco “Quanno nascette ninno“, nella sua versione originale. La canzone composta dal vescovo, letterato e grande compositore Alfonso Maria de’ Liguori (1696-1787), proclamato Santo. Brano da cui promana la tanto famosa “Tu scendi dalle stelle”. Questa la notizia da cui prende le mosse l’articolo, che avrebbe peccato di intempestività, perché non avvenuto in tempo reale, ma avvenuto dopo la messa in scena, se questo non mi avesse offerto l’occasione di parlare di Sara Favarò e di sottoporre ai miei lettori una serie di considerazioni.
Io sono napoletana, vissuta per molti anni in Sicilia, e felicemente colpita da quella che Leonardo Sciascia chiamava “sicilitudine” ed io, nel mio piccolo, fa-va-rò la sicilitudine scrivendone. Quindi, tornando al Regno delle due Sicilie, Napoli scrive, Sicilia risponde.
Sara Favarò è una conosciutissima artista rigorosamente siciliana d’origine e di fatto. Scrittrice, poetessa, musicista, giornalista pubblicista, che molto ben esplora la sua storia e la storia di una terra, di un’isola gloriosa e lo fa scrivendo, cantando, recitando ma sempre ben immersa negli anfratti intimi della sua terra. Sara Favarò ha pubblicato molti libri di successo tra i quali: ‘Le porte del sole’, ‘Il coraggio delle donne’, ‘Paura d´amare’, ‘Le ragazze dello Zen’, ‘Gli occhi del cuore’, ‘Proverbi siciliani in uso ed altri’.
Ma Sara Favarò ha pubblicato un testo di narrativa che io ritengo molto importante: “Giufà il semplice”. Si parla nel libro della capacità di ascoltare i “cunti” per assorbire il modo di essere di essere siciliano, il modo di dire siciliano, il modo di assorbire la vita da siciliano, proveniente da una cultura millenaria, dove anche il comunicare è sospeso sottilmente tra detto e sottinteso, tra taciuto e rivelato, per esprimersi trapassando metaforicamente la parola stessa. Frasi, scherzi, consigli, storie di vita sintetizzate, miti, affettuosità, imprecazioni, offese. Cunti… siciliani come guida indispensabile per chi voglia capire l’anima di un popolo.
Sara Favarò ha anche sintetizzato questo in un personaggio, il mitico Giufà, che ripercorre le gesta del famoso personaggio siciliano di origine araba che, pur se con nomi e atteggiamenti diversi, è di casa in tutti paesi che si affacciano sul Mediterraneo. Giufà che diventa in arabo Giùha, in ebraico Giokà, in Egitto Goha, Jeha in Algeria e in Marocco, Nasreddin Hodja o Nasreddin Hoca in Turchia, a Malta è Gihane, in Bulgaria Hitar Petar, Nastra-tin Hogea in Romania, Nastradin in Grecia ed ex Iugoslavia, in Sardegna è Giaffah, Giucca in Toscana, Turlulè in Trentino.
Giuseppe Pitrè, grande studioso di tradizioni popolari nel 1875 scriveva: “Il nome di Giufà si modifica e trasforma da paese a paese; in Trapani è Giucà, in Piana de’ Greci, Palazzo Adriano e nelle altre colonie albanesi di Sicilia, GiuZà, in Acri (Calabria citer.) Giuvali; in Toscana, Roma e Marche, Giucca. Il nome di Giufà coincide con quello d’una tribù araba, ed il personaggio ha riscontri in Sdirrameddu e in Maju longu di Polizzi, nel Loccu di li passuli e ficu di Cerda, e in Martinu di Palermo,in Trianniscia di Terra d’Otranto, nel Mato di Venezia, in Simonëtt del Piemonte e in Bertoldino e Cacasenno”.
Il Giufà era un irresponsabile che combina guai ma di tanto in tanto, veniva colto da insolita furbizia, dovuta più alla casualità degli eventi che a una caratterista intrinseca, ma anche un Giufà talvolta dotato di imprevedibili guizzi di genialità. Giufà è anche un modo ed un modello per intendere la vita. Giufà il candido che incontra e si scontra con la quotidianietà, con la vita, fino a divenire un Giufà furbo che si adopra per riscattare i torti subiti dagli altri con imprevedibili guizzi di genialità. Un Giufà furbo che adduvatu di un padrone molto scorretto.
A tal proposito alcuni racconti sono molto simili sia nella tradizione siciliana che in quella araba. Tipico esempio è il racconto, documentato a Trapani e inserito nella raccolta del Pitrè, intitolato ‘Giucà e chiddu di la scummisa’, che nella cultura araba trova riscontro in ‘Giufà e il sultano’. I fatti narrati sono pressocché identici, ma con una differenza sostanziale: nel racconto trapanese Giufà vendica il maltorto subito da un amico, dipendente di un padrone che si riteneva essere troppo scaltro; nella narrazione araba è lo stesso Giufà che riesce a vendicarsi per un torto inflittogli dal sultano. Un personaggio che, per le sue poliedriche caratteristiche, di sicuro affascinava e ancora oggi affascina. Un Giufà odierno, avveduto e maturato nel suo candore, che non tollera e non sopporta modi deviati di essere, che lotta per il riscatto totale della sua gente. Un Giufà che non assiste impavido ai soprusi. Io non voglio dire una “giufanata”, ma ben vedrei un contemporaneo Giufà che lotta la mafia, che persevera per far emergere la pulizia della sua Isola, la bellezza della sua terra ed il candore e la fierezza dei suoi abitanti.
Il candore e la fierezza degli isolani. In termini semplici io vedrei il candido Giufà nella veste di integerrimo magistrato. E’ un omaggio al bambino, al magistrato bambino, che riconosce la memoria popolare e la capacità della cultura popolare di rigenerarsi e riappropriarsi del proprio messaggio originario proveniente dai territori più diversi.

 


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