Le domande che Vespa non ha fatto a Riina Scelte da cinque giovani giornalisti siciliani

All’indomani dell’intervista a Giuseppe Salvatore Riina su Rai1 da parte di Bruno Vespa, Claudio Fava, vicepresidente della commissione antimafia, commentava: «Al posto della Rai, l’avrei fatto intervistare da uno delle decine di giovani e bravi cronisti che gli amici di Riina minacciano ogni giorno di morte e di scomunica, che sono costretti a vivere sotto scorta, che fanno questo lavoro per quattro euro ad articolo. E se a quel punto Riina junior s’offendeva, non voleva, si rifiutava: bene. Era quella l’intervista». Non sono pochi i giovani colleghi che hanno scelto di rimanere in Sicilia, raccontando Cosa Nostra e i territori dove prospera, determinandone futuro e sviluppo. Abbiamo chiesto a cinque di loro di scegliere una domanda che avrebbero posto al figlio del capo della mafia siciliana e di spiegare perché proprio quella.

Giuseppe Pipitone
, Il Fatto Quotidiano.

Probabilmente a Riina Jr chiederei dell’unico capitolo ancora oscuro di cui é stato testimone diretto, e cioè l’abbandono del covo di via Bernini, dopo l’arresto di suo padre il 15 gennaio 1993. Come ricorderete il covo venne perquisito 15 giorni dopo, ma venne trovato completamente vuoto: perfino le pareti erano state ridipinte di fresco. «Signor Riina, quel giorno come seppe dell’arresto di suo padre? Chi venne a prendere lei, sua madre e i suoi fratelli? Cosa c’era nella villetta che abitavate? C’era una cassaforte? Chi la ripulì? Non si è accorto della sorveglianza del Ros del Carabinieri? C’era un pulmino davanti al cancello?».

Ma non mi risponderebbe mai. Quindi, punterei più che altro al rapporto col padre, provando a toccarlo nella sua presunta onorabilità, per vedere se si riesce a scatenare una reazione. La mia domanda sarebbe dunque: «Come lei certamente sa – anche se per ovvi motivi lo nega – suo padre è il principale mandante delle stragi del 1992 e 1993. Ed è durante la fase preparatoria di quelle stragi che uno dei suoi uomini fece notare il rischio di uccidere per sbaglio bambini innocenti. La frase pronunciata da suo padre é micidiale: “Di bambini a Sarajevo ne muoiono tanti, perché ci dobbiamo preoccupare proprio noi di Corleone?” In effetti non si preoccuparono: e infatti a Firenze, nella strage di via dei Georgofili, persero la vita le piccole Nadia e Caterina Nencioni, rispettivamente nove anni e 50 giorni di età. Ecco, volevo chiederle: è questo il concetto di rispetto che le ha insegnato suo padre? Assassinare i neonati? É un concetto che sente di aver fatto suo?».


Saul Caia
, Narcomafie, Il Fatto Quotidiano.

Nel suo libro e nel corso dell’intervista non c’è una parola di pentimento in merito agli eccidi commessi da suo padre. Ma cosa si sente di dire e prova nei confronti delle tante famiglie spezzate, degli innumerevoli figli e figlie (alcuni suoi coetanei) che hanno perso un genitore per colpa degli omicidi commessi e decisi dal suo? Come racconterà un giorno ai sui figli o ai suoi nipoti, i crimini e le stragi volute dal loro nonno?

La mia è una domanda rivolta all’uomo Riina, al di là del rapporto personale e intimo che può avere e ha nei confronti della sua «famiglia speciale», come la definisce lui, però a distanza di tanti anni e alla luce delle condanne in via definitiva che ci sono state, non può non prendere una posizione e dare un giudizio, positivo o negativo che sia, sugli omicidi e le stragi che hanno segnato la storia dei siciliani e dell’Italia intera. Perché non prendere una posizione e non rinnegare quel cognome e tutto quello che rappresenta, come in passato hanno fatto molti altri, penso ai casi di Peppino Impastato, Lea Garofalo e del più recente Giuseppe Cimarosa, fa di lui un mafioso stesso.


Lara Sirignano
, Ansa Palermo

Cosa direbbe al figlio di una vittima della mafia, a chi ha perso il padre ed è stato costretto a crescere orfano per colpa di suo padre, Totò Riina. È facile cavarsela dicendo che un genitore non si giudica, che va solo amato ed è stato grave accontentarsi del «non spetta a me giudicare» detto davanti alle telecamere. Un figlio è innanzitutto un individuo che dovrebbe avere etica e coscienza e sarei curiosa di ascoltare la sua risposta. Vorrei sapere anche come spiegherebbe a uno dei tanti orfani che questa terra insanguinata dalla violenza di Cosa nostra conta, i presunti valori che suo padre gli ha trasmesso.

Giacomo Di Girolamo, Repubblica Palermo, Tp24.

Signor Riina, ha mai chiesto a suo padre o si è mai chiesto, magari come un pensiero passeggero, una cosa buttata lì, giusto per parlare, ecco, perché è nella natura umana chiedersi i perché delle cose, interrogarsi, e insomma ha mai chiesto o si è mai chiesto qual è il senso di tutto questo, se c’é nella violenza della mafia, una ragione che magari a noi sfugge, una logica, signor Riina, magari oso dire un senso di bellezza? C’è bellezza nell’inferno, signor Riina? Ecco, ha mai pensato alla bellezza? E secondo lei, più in generale, lei che è uomo di mondo, che ha girato il Paese e guardava alla televisione l’America’s Cup da piccino, noi siciliani, suoi conterranei, ce la meritiamo la bellezza della terra in cui viviamo, o ci meritiamo l’inferno che ci avete costruito intorno, signor Riina?

Dario De Luca, MeridioNews.

Secondo lei quanto ha pesato l’agire di Cosa nostra sull’attuale situazione socio-politica che vive la Sicilia? Una regione profondamente arretrata sotto tanti punti di vista.

Scegliere una domanda per Giuseppe Salvatore Riina non è stato facile. Le risposte del figlio del capo di Cosa nostra a Bruno Vespa spesso sono state scontate. L’intervista trasmessa da Rai 1 tuttavia è solo l’ultimo esempio di parenti di mafiosi che finiscono davanti una telecamera e un microfono senza rinnegare i cognomi che portano e il contesto familiare in cui sono cresciuti. Ecco perché bisognerebbe spostare l’attenzione dal personale al generale per cercare di comprendere che visione della società hanno questi uomini. Il problema di un faccia a faccia con personaggi del genere, mettendo da parte le bizzarre e inutili trovate di qualcuno che decanta l’istituzione del reato di apologia della mafia, a mio avviso è legato alle risposte e alle domande che dovrebbero essere immediatamente fatte dal giornalista per incalzare così da non concedere comodi palcoscenici.


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