Wu Ming a Palermo, nel segno del colonialismo italiano «Crisi migratoria è l’incapacità di fare i conti col passato»

«Non ho io il merito dell’installazione, è tutto merito loro». Si tiene basso, Wu Ming 2, quando si parla di Viva Menilicchi – l’installazione artistica al teatro Garibaldi incentrata sulle tracce del colonialismo nel capoluogo siciliano. È una delle tappe preferite da chi è venuto in città per Manifesta, la biennale d’arte contemporanea che quest’anno si tiene a Palermo. E il merito, secondo lo scrittore che da anni affronta – da solo e insieme al collettivo di scrittori Wu Ming – il periodo storico che parte dall’800, è soprattutto del collettivo Fare Ala, che ha materialmente realizzato l’opera. Ma l’ideatore del progetto, che sfocerà il 20 ottobre in una passeggiata narrativa per la città, resta lui. Ed è per questo che è proprio con Wu Ming 2 che abbiamo scelto di affrontare una serie di temi legati inevitabilmente al colonialismo, che come un macigno invisibile sembra schiacciare la politica e la società italiana. Un enorme fantasma, insomma, che però ha conseguenze concrete nella vita di ciascuno.

Il periodo del colonialismo italiano è da sempre un momento storico rimosso. Il mito degli “italiani brava gente” resiste, e lo si vede anche in questi giorni. I rigurgiti razzisti sono diffusi, ma chiunque invoca censimenti, epurazioni di massa, affondi dei barconi continua a professarsi “normale”. Ma in che modo il razzismo di oggi è legato a quel periodo storico?

Non parlerei propriamente di rimozione. In chiave psicanalitica la rimozione è ciò che il soggetto fa inconsciamente quando si vergogna di un’azione. Invece in questo caso la vergogna c’è fino a un certo punto. In molti casi invece parlerei di censura se non di ribaltamento e di narrazione edulcorata che viene fatta in maniera conscia. Il colonialismo è stato imbellettato e cosmetizzato apposta, con una precisa volontà politica e storica. Non è un caso che per fare gli italiani si sia utilizzata l’impresa d’Africa. La baia di Assab, che è la prima impresa coloniale italiana, viene acquistata pochi anni dopo l’unità d’Italia. E qualcuno disse che ci eravamo appena liberati dagli Austriaci, ora toccava a noi diventare gli austriaci di qualcun altro. Ciò radica il razzismo nelle coscienze degli italiani sin dall’inizio.

Quindi quello che succede ad esempio con le Ong e il “carico di migranti” che portano con sé non ti sorprende più di tanto?

No, non mi sorprende più di tanto e credo che invece appunto con una maggiore consapevolezza della nostra storia coloniale si capirebbe meglio come mai appunto i Paesi che poi sono più all’attenzione in questa presunta crisi migratoria sono la Libia, ex colonia italiana, la Somalia, ex colonia italiana, e tante altre colonie. Probabilmente ci si renderebbe conto del fatto che quella che chiamiamo “emergenza rifugiati” o “crisi migratoria” è in realtà l’incapacità dell’Europa, e dell’Italia in particolare, di fare i conti con 500 anni di colonialismo nel resto del mondo.

Cosa hai scoperto, che non sapevi, di Palermo? Sei convinto che davvero la città sia un’anomalia rispetto al clima imperante, e cosa ne pensi di chi la racconta come città dell’accoglienza?

Da tanti anni vengo in città, iniziai con lo Zetalab che ospitava una comunità di sudanesi appena arrivati a Palermo, in un luogo che teneva insieme cultura e accoglienza.  Devo dire che sono stato sorpreso e colpito, anche nell’ultima visita, dalla quantità di associazioni, di gruppi, di persone, di singoli che si occupano di accoglienza e cercano di farla avendo in mente un’idea di società meticcia. Non come semplice integrazione nei meccanismi della società italiana ma come vero e proprio scambio. Al di là dell’autonarrazione credo che una sostanza ci sia. Mi è anche chiaro che c’è il rischio che questa sostanza possa trasformarsi in retorica. Mi rendo conto ad esempio che un sindaco come Orlando ha fatto di questo tema un tema retorico, per certi versi ha sostituito quello che era un discorso antimafia – che un tempo era stato il suo cavallo di battaglia – con questo nuovo discorso. Gli elementi retorici, narrativi e di organizzazione del consenso ci sono, ma dall’altra parte forse è meglio una retorica di questo tipo che non discorsi come quelli per cui le “ong sono finanziate da Soros e si muovono per attuare la sostituzione etnica”. L’aspetto più negativo è che di solito la retorica nasconde altro. Per esempio ho scoperto che il giorno prima dell’intitolazione della parte finale della Cala come lungomare delle migrazioni la prefettura aveva lanciato un bando per nuovi centri d’accoglienza straordinari. Questo mi è sembrato un esempio di come l’autonarrazione a volte viene usata per imbellettare una situazione che non le corrisponde.

Se la Lega non fa mistero di ispirarsi al periodo coloniale (si vedano le citazioni evidenti di Salvini, come quella di Mussolini del “tanti nemici tanti onore”), come collocare il senso della storia degli aderenti al movimento di Grillo?

Temo che i 5stelle di governo, non chiaramente i singoli elettori sui quali non mi permetto di esprimermi, non abbiano proprio un senso della storia e il loro dichiararsi “né di destra né di sinistra” d’altra parte ne è una dimostrazione. Di conseguenza, come già su altri temi, rischiano di sposare il senso della storia altrui, e in questo caso quello dell’alleato di governo. La Lega invece un senso della storia ce l’ha, differente, anche se la sua narrazione è comunque cambiata. Salvini in questo è l’artefice di un maquillage piuttosto notevole: un partito che affondava le sue radici nel rifiuto di un’italia fatta anche attraverso l’emigrazione dal Meridione e che invece adesso si presenta come partito nazionale che rifiuta un altro tipo di emigrazione, e che si rifà alla retorica coloniale per farsi più forza di questa interpretazione. Entrambi sono partiti con un senso della storia molto limitato, che trovano un punto di origine in ciò che gli fa comodo al momento. Non guardano mai più in là dell’inizio di quel che gli torna utile, e di conseguenza plasmano la storia a proprio piacimento. Ciò nonostante è utile guardare che riferimenti hanno: certamente nessuno dei due è davvero un partito antisistema, intendo il sistema neocoloniale italiano. Né la Lega né i 5stelle, ad esempio, hanno molto da dire sugli interessi delle multinazionali italiane all’estero

Come ad esempio Eni in Africa, chiaro. Siete stati tra i primi a segnalare il Movimento 5 stelle come reazionario. E nel 2013 ancora “tifavate rivolta” all’interno di esso. Ci credete ancora? 

Cinque anni fa eravamo stati attaccati perché dicevamo che il Movimento aveva una funzione conservatrice all’interno del sistema politico, che in qualche modo aveva incanalato tutta una serie di temi potenzialmente destabilizzanti in un’ottica molto funzionale al sistema. Avevano cioè in qualche modo vampirizzato temi dei movimenti sociali che avevano riempito le piazze per incanalarli in una forma più gestibile. Detto questo, da materialisti dialettici dicevamo appunto che comunque “tifiamo conflitto”: dicevamo cioè che anche i 5stelle possono essere una formazione dove possono esplodere le contraddizioni, anche perché allora vedevamo tante persone genuinamente di sinistra che erano stanche dei partiti della sinistra istituzionale e che avevano creduto di trovare in loro una possibile risposta. Con l’idea di poterli portare da questa parte e non da quell’altra. Tifiamo ancora rivolta, ma pensiamo che ormai la frittata è fatta: pensiamo che attualmente non ci siano più scuse per l’elettore che si considera di sinistra per pensare di votare per i 5stelle. E di conseguenza pensiamo che ci sia ben poco spazio per la rivolta. Qualunque tentativo di fare “entrismo” (cioè di infiltrarsi dentro la galassia pentastellata … ndr) mi sembra destinato a fallire.

Forse si può pensare al massimo a tirare fuori qualcuno, no?

Ecco, chi pensava di fare rivolta dentro di loro, di fronte al fallimento, forse, può provare a dirottarli. Ma non certo si può pensare di continuare su quella strada. 

Andrea Turco

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