Via Crociferi, quel ponte abusivo sulla storia Tra novizie e storie di cavalli senza testa

Due volte s’incontran, le bianche e le nere, sul ponte,
sul ponte che unisce i conventi,
li unisce da tanto per vecchia amicizia,
le piccole torri si guardan ridenti
una bianca una nera,
le suore s’incontran la sera
la sera al crepuscolo.
(Aldo Palazzeschi)

Il primo caso di abusivismo edilizio della Catania barocca? L’Arco delle Benedettine. A partire dal sisma del 1693, a Catania avvenne una vera rivoluzione urbanistica: le ampie strade sostituirono vicoli e cortiletti. Anche l’antica via Crociferi, ingombrata dalla fine del XIV secolo dal convento di San Benedetto, venne allargata e il vecchio corpo di fabbrica demolito. Le monache si opposero, ma ricostruire sopra la strada sarebbe significato incappare in una gravosa penale. Così nasce la leggenda dell’Arco delle Benedettine.

Il piano urbanistico prevedeva una particolare tassa: ciò che veniva eretto durante il giorno andava dichiarato e tassato. In questo modo si garantiva un certo controllo dell’edilizia e l’applicazione del piano regolatore. La tradizione vuole che le astute suore riuscirono a eludere la normativa con un semplice stratagemma: eressero un ponte che univa le due parti del convento in una sola notte, non incappando più nella tassa, poiché il ponte era già lì.
In una sola frase, uno dei primi casi di abusivismo edilizio di Catania.
In realtà è molto più probabile che le suore raggiunsero un compromesso con il senato civico, costruendo l’arco sì in tempi brevi, ma non certo in una notte. Ma questa è solo una delle tante storie che racconta questo singolare e affascinante edificio della Catania barocca.

Quella più celebre è forse quella del cavallo senza testa.
Nella Catania del Settecento i nobili che volevano usare la via Crociferi quale teatro delle loro tresche non ufficiali, per evitare che la via venisse frequentata da eventuali scomodi testimoni diffusero la diceria che a mezzanotte lungo la strada corresse il fantasma di un cavallo senza testa. Il popolino credulone e scaramantico si impaurì facilmente e i nobili poterono nottetempo continuare le loro vicende amorose. Ma un popolano volle dimostrare che erano solo storie, avventurandosi coraggiosamente nella buia strada nei minuti intorno alla mezzanotte. Avrebbe testimoniato la falsità della storia e provato la bontà del suo racconto piantando un chiodo sotto l’Arco, dimostrando così di esser stato davvero in quei luoghi.

Echi di amoreggiamenti diventavano sospiri di fantasmi e ombre fugaci sembravano spettri nel buio. Intimorito dal cupo luogo piantò di fretta il chiodo. «Tum! Tum!» risuonava spettrale il mazzuolo.
Ansimante e ansioso l’uomo fece per andarsene, ma si sentì tirare la veste: più provava a fuggire, più veniva strattonato. Si voltò per sapere chi lo tratteneva. Non vide nessuno. Ebbe un infarto e spirò.
L’indomani, alle prime luci del giorno, il cadavere venne ritrovato disteso a terra, ma la sua mantellina impigliata al di sotto del chiodo che lui stesso piantò.
Quello, c’è da aggiungere, non fu il solo tentativo: ancora oggi infatti l’arco presenta segni e resti di chiodi lasciati da altri avventurieri che fecero miglior fine, facendo esplodere la moda dei lucchetti di Ponte Milvio secoli prima che lo stesso Moccia nascesse.

Un’altra storia merita di essere raccontata, quella delle grate in ferro che sporgono dal Ponte.
Nel Settecento come oggi la processione di Sant’Agata passava sotto l’Arco. Un momento di festa e di sfrenatezza. In questa occasione, i rampolli della Catania bene si organizzavano con scale in legno e, approfittando della confusione, si introducevano nel convento a insidiare le novizie.
Così, per salvare l’integrità delle fanciulle da un lato e permettere loro di continuare a osservare dal ponte la festa, all’architetto Gian Battista Vaccarini fu affidato il delicato compito di inventare una inferriata che risolse la situazione, di fatto sopprimendo un momento di baccanale trascinato chissà da quanto tempo, in questa città ricca di memorie più o meno dignitose.


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