La scrittrice Marcella Croce ha scelto di insegnare italiano proprio in Iran. Il suo racconto di aneddoti, vizi e virtù di un paese schizofrenico- «Il velo si sopporta, se si è libere di pensare»
Velo in piazza, blue jeans in casa
«Quando mi sono recata per la prima volta ad Isfahan per insegnare italiano nel 2003, mi sono subito resa conto di trovarmi in un paese in cui a regnare sono la contraddizione e l’apparenza, dove uomini e donne sono impeccabili musulmani in pubblico, ma dentro le pareti di casa è tutta un’altra storia». Marcella Croce inizia così a raccontare due anni vissuti in un paese in cui a comandare non è una dittatura militare ma religiosa, in cui usi e costumi di un popolo convivono tra una precoce occidentalizzazione e un tradizionalismo persistente. È una realtà interessante e controversa, quella che la scrittrice racconta nel suo ultimo libro “Oltre il chador Iran in bianco e nero” vincitore del premio “Il paese delle donne” 2007. La presentazione si è tenuta nella facoltà di Scienze politiche nel corso di un incontro sul sistema universitario e la condizione femminile in Iran organizzato dal dipartimento di Studi politici e dal corso di laurea in Scienze storiche, con il patrocinio del Comitato pari opportunità dell’Università di Catania.
«Si tratta di un paese altamente tecnologico in cui vengono ancora imposte leggi medievali, come il matrimonio tra bambini che nessuno attua più, mentre la poligamia presente ed accettata si manifesta attraverso il “matrimonio a ore”: l’uomo può disporre di un’altra moglie da un tempo che va da un’ora a novantanove anni, ottimo escamotage per sfuggire alla prostituzione». La quotidianità vissuta dalla docente è quella del mondo universitario di Isfahan, una realtà fatta da sogni e difficoltà di giovani studenti iraniani, che frequentano l’università solo una volta superato un complicatissimo esame pubblico nazionale, e tra loro chi spera di studiare all’estero è bloccato da una burocrazia lunga e rigida. Le strutture delle università iraniane sono davvero molto simili ai campus statunitensi, ma come ci dice la docente è dai dormitori che si capisce di essere ancora in Iran: «dalla rigida divisione tra sessi e da un vigile controllo sul vestiario: colori sgargianti, pantaloni corti e sandali sono off limits anche per gli uomini».
Il velo iraniano, l’hijab, che dovrebbe nascondere orecchie e nuca, scopre invece molto spesso i capelli, dettaglio che ci fa capire quanta reale sia l’adesione alla religione di Stato, veli e indumenti-casacca accuratamente indossati in pubblico scompaiono dietro la porta di casa per lasciare spazio a lunghi capelli, maglie stile occidentale e blue jeans: una delle mille contraddizioni di un paese «schizofrenico» variegato ed effervescente.
La tv locale permessa dal regime, convive con mega-parabole che gli iraniani provano, con scarso successo, a nascondere; ed è proprio la libera informazione ad essere tarlo di un paese altrimenti libero e vivace «è drammatica la storia di Uosef Rachidi, studente universitario di Teheran che durante la visita di Ahmadinejad espone un cartello che dice a caratteri cubitali “presidente fascista l’università non è il tuo posto”, vero e proprio manifesto di una libertà ancora limitata al benestare del regime».
Ma la storia di Uosef Rahidi non è la sola, numerose sono le contestazioni di quanti hanno trovato al potere un regime che non li rappresenta, “Where is my vote?” è il leitmotiv delle masse che non si riconoscono in questo governo.
«Sono vicende veramente lontane anni luce dal nostro modo di pensare, tuttavia – conclude la docente – l’Iran che porto con me è fatto da gente buona e calorosa che ha accolto me e mio marito come fossimo uno di loro, impareggiabile è poi la bellezza architettonica, l’arte e i giardini, è proprio questo Iran che racconto nel mio ultimo libro».