Sogna ragazzo, sogna

Avere vent’anni, anzi ventitré, nell’era di Berlusconi vuol dire vedere la propria mamma in lacrime, dopo 25 anni di lavoro, rientrare a casa e dire “mi hanno licenziato”. Vuol dire accompagnarla ai vari “centri per l’impiego”, quando dovrebbe essere lei ad accompagnare te. Vuol dire fare la fila con lei, per dimostrarle che non è sola, che nonostante tutto ci sei tu lì con lei, e rendersi conto che dovete aspettare il turno fuori dall’edificio, tante sono le persone in coda prima di voi. C’è chi è solo, chi ha due figlioletti per mano che non ne vogliono proprio sapere di stare fermi e scappano da tutte le parti, perché le babysitter costano e allora li porti via con te, ché “non sarà poi così difficile riuscire a farli stare buoni buoni”.

Vuol dire avere il privilegio di fare l’università, anche se vicino a casa perché così con un’ora di treno te la cavi e non c’è l’affitto di un eventuale alloggio da pagare, ché “già abbiamo quello di casa con cui fare i conti”. Vuol dire scoprire che il ricercatore precario che ti ha seguito durante la preparazione della tesi, che ti ha aiutato a crescere e che credeva in te, con cui avevi in mente un’idea, un progetto da sviluppare in futuro, magari in vista della tesi quinquennale, perché no?, il prossimo anno non lo ritroverai, perché il suo contratto non è stato rinnovato, e quindi a quella tua idea, a quel tuo progetto, dovrai dire addio.

Vuol dire dover conoscere l’inglese alla perfezione, salvo avere un unico esame per corso di laurea, con il professore che giustamente scuote la testa sentendo le nostre pronunce di studenti ventenni, a cui vorresti dire “mi dispiace, professore, io la pronuncia British non ce l’ho, faccio quello che posso, sa, a casa non abbiamo nemmeno Sky, e l’ADSL è arrivata lo scorso anno. Guardo i film in inglese e cerco di seguire qualche telegiornale britannico via internet, so che non è sicuramente equivalente ad un Erasmus all’estero, ma sa com’è, le borse Erasmus sono irrisorie, e io non posso permettermi di studiare fuori dall’Italia. Andrò all’estero, sicuramente, a imparare l’inglese lavorando, ma se ci vado adesso, mentre sto ancora studiando, sa com’è, rischio di andare fuori corso. Lavorare e studiare è un’impresa per pochi: io non sono tra quelli, e rischio di perdere le sovvenzioni”.

Avere vent’anni, anzi, ventitré, nell’era di Berlusconi vuol dire affacciarsi al mondo del lavoro e dover salutare ogni anno qualcuno dei tuoi amici trentenni, che già ci sono dentro, i quali, validissimi professionalmente, hanno deciso di cercare fortuna altrove, ché “all’estero è meglio, per lo meno tentar non nuoce, tanto stare in Italia non ne vale la pena”.

Vuol dire anche vedere amici a cui non frega niente di tutto ciò, quelli che “la politica è una palla” e “le manifestazioni sono inutili, tanto non cambia niente”, quelli che “ma Iraq e Palestina sono la solita cosa?”, e quelli che è meglio uscire e divertirsi, tanto ci sono mamma e papà che coprono le spalle.

Vuol dire commuoversi ogni volta che si ascolta “Sogna ragazzo sogna”, perché per andare avanti, soprattutto in un momento come questo, devi crederci, e non devi farti influenzare da coloro che dicono “che al mondo quelli come te perderanno sempre: perché hai già vinto, lo giuro, e non ti possono fare più niente”.

Avere vent’anni, anzi, ventitré, nell’era di Berlusconi vuol dire parlare tramite pc con il tuo ragazzo, che si trova all’estero poiché restare in Italia non aveva senso, almeno lì la laurea la considerano tale, perché è vero che adesso c’è crisi dappertutto, ma all’estero ce n’è sempre un po’ di meno. Vuol dire vedersi in base alle tariffe speciali della tal compagnia aerea, e scherzare sul fatto di avere una relazione che in parte dipenda da quest’ultima.

E, con l’aria che tira, speriamo almeno che non fallisca.

Post tratto da Avere vent’anni nell’era Berlusconi.


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