Al Gapa si ricorda Giuseppe Fava attraverso le immagini della film-maker Sonia Giardina, che raccontano gli «squarci di resistenza a Catania» degli ultimi due anni
Scrivere con la telecamera
Ricordare Giuseppe Fava in modo semplice, ‹‹con le nostre azioni, narrando la città reale e i quartieri con le loro storie di strada››. Questa la scelta del Gapa, associazione che opera nel disagiato quartiere catanese di S. Cristoforo, che lo scorso 6 gennaio ha ripercorso le vicende di questi ultimi anni attraverso i video di Sonia Giardina, giovane film-maker che, rientrata a Catania dopo una permanenza di cinque anni all’estero, ‹‹da documentarista, giornalista e donna impegnata socialmente››, ha sentito l’esigenza ‹‹di scrivere con le immagini questa avventura, questo percorso fatto di strappi, grida e di piccoli-grandi risultati››.
Il ”No Gelmini day”, “Lo sgombero dell’Experia”, il “Dai un calcio al razzismo” e tanti altri video, sono racconti visivi, in pillole, ‹‹dei focolai di lotta, mai slegati l’uno dall’altro, che si sono accesi nella nostra città e che sono stati e continuano ad essere parte integrante di un unico percorso di resistenza››.
Quella resistenza di tanti uomini e donne che lottano ‹‹per una democrazia non più spezzata›› e ‹‹per difendere i diritti fondamentali sanciti dalla Costituzione›› rifiutando ‹‹un sistema basato sullo sfruttamento e l’oppressione che attacca l’istruzione, le donne, il lavoro, il migrante, il territorio, l’integrazione sociale…››.
Sonia Giardina ha usato la telecamera ‹‹come strumento per scrivere››, perché la verità non conosce confini, né di sostanza né di forma. Ed è il suo modo di ricordare Fava ‹‹con il cuore e la mente, con le parole di carta, con le immagini che scorrono per narrare verità, giustizia e libertà››. Per l’autrice di questi video, filmare significa prendere una posizione, ‹‹definendo lo spazio di azione dei personaggi, mettendoli in relazione all’interno dell’inquadratura, sottolineando un momento, un gesto, soffermandomi su un dettaglio››. Anche attraverso la videocamera è come se si agguantasse una sorta di integrazione: ‹‹le persone che riprendo, non sono più fuori da me››, spiega Sonia. Che dichiara di ispirarsi a ‹‹un’estetica della resistenza e un’informazione della resistenza, per oppormi alla rimozione del reale, operata dai media estranei ai conflitti sociali reali››.
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