Rock Steady, il nuovo album del rapper Ensi «La Sicilia e Catania fanno parte di me»

A poche settimane dall’uscita del suo ultimo lavoro discografico Rock Steady, il rapper Ensi racconta di sé, delle sue costanti nella musica e nella vita, e delle sue origini terrone che lo legano profondamente a Catania e alla Sicilia. Definito il re italiano del freestyle – l’improvvisazione rap -, al secolo Jari Ivan Vella ha battuto la concorrenza su più fronti: la prima edizione della manifestazione hip hop Tecniche Perfette, il raduno nazionale 2theBit «che fu il mio battesimo di fuoco perché mi ha fatto guadagnare il rispetto dei veterani e di tutto l’ambiente», racconta, e poi il programma MTV Spit, «che mi ha dato la trasversalità, la visibilità in mainstream».

Sei nato e cresciuto a Torino, ma le tue origini sono catanesi: che rapporto hai con questa città e con la Sicilia?
«Un rapporto fantastico, perché la parte siciliana della mia famiglia è quella che mi ha trasmesso il valore per la terra, per le tradizioni. In casa sentivo mio padre parlare con i nonni e gli zii in dialetto e l’ho imparato anch’io. Lo so, sembra strano, ma a Torino io ho imparato a parlare il siciliano. E la Sicilia fa parte di me, c’è poco da fare: la mia ragazza è di Adrano, anche se ora vive a Milano, questo disco è prodotto interamente da un ragazzo di Catania, Symone, così come l’arrangiatore e musicista che ha lavorato con lui, Giuseppe Furnari, e Cesare Grillo, che ha scritto e cantato alcuni dei ritornelli. Quindi Catania e la Sicilia s’intersecano sempre con la mia vita ed è bello perché, come dico nel brano V.I.P., “se non sai da dove vieni non puoi capire il mondo”».

E poi c’è anche il brano Terrone, uno dei tuoi primi singoli, che parla della Sicilia con un po’ di ironia…
«È stato un brano molto apprezzato ma altrettanto discusso, perché non ci si aspettava un pezzo simile da Torino. Quando spiegai ai ragazzi del mio quartiere che avremmo girato un video, dissi loro di portare delle maglie con le squadre di calcio del sud: ne portarono 12, maglie originali dell’allora calciatore del Napoli Ezequiel Lavezzi, maglie del Messina, del Crotone, del Bari e così via. Praticamente siamo tutti un po’ meridionali. Quando al nord faccio questo pezzo, chiedo “Quanti di voi sono di origine meridionale?”. I tre quarti del pubblico è con la mano su. Quando invece la canto al sud, dico “Quanti di voi hanno un cugino al nord? Ecco, questa canzone l’ho scritta per lui”».

Che commenti hai ricevuto proprio dal sud?
Il termine terrone è un insulto, ma io l’ho trasformato in un inno nazionale. Ho avuto feedback positivi a 360 gradi e a Catania è cresciuta una forte stima per me. Ricordo che una volta entrai in una rosticceria, presi da mangiare e, quando chiesi di pagare, l’uomo dietro al bancone mi disse: “Per te è tutto gratis, mbare, perché hai messo la scarpetta del Catania nel video”».

Rock Steady, il tuo ultimo album, punta tutto sulla costanza e la coerenza: quali sono le tue costanti, i punti fermi nella tua vita?
«Uno su tutti è la testardaggine nel non voler prendere scorciatoie, anche se lo dico con un po’ di rammarico. Io sono fiero delle scelte che ho fatto, ma sono consapevole di quanto siano state difficili. Anche in questo album avrei potuto inserire artisti pop e mettere in mezzo tutti i rapper italiani, ma ho deciso di non prendere scorciatoie, perché vorrei che la gente lo ascoltasse e si appassionasse al disco perché è di Ensi e non di qualcun altro. Scelgo sempre con il cuore, anche quando si tratta della strada più impervia. Ovviamente cambia la professionalità, oggi la mia passione è diventata anche la mia professione».

Com’è vivere del proprio sogno?
«Bellissimo, ma anche è massacrante. Io fino al 2010 ho fatto più lavori delle Barbie e la notte mi dedicavo alla musica. Oggi invece le dedico tutta la mia giornata, è diventata una cosa totalizzante e questo può portare a perdere un po’ di intensità, quindi è importante riscoprire il perché si è cominciato. Dimenticavo: un’altra mia costante è la capacità di mettermi nei guai!».

Ti sei guadagnato il titolo di miglior freestyler italiano, per te è più una soddisfazione o una responsabilità?
«Entrambe le cose. Soddisfazione perché, dati alla mano, ho vinto tutto e questo mi carica di orgoglio. La gente mi riconosce per strada in tutt’Italia grazie al freestyle, senza aiuti o un’etichetta discografica a mettermi i soldi sotto il sedere. Per il resto, però, so che devo evadere un po’ da questo appellativo perché, quando si eccelle troppo in una cosa, la gente ti identifica solo con questa. In radio non faccio più freestyle perché rischierei di diventare un jukebox. Vorrei che fosse come un assolo di sax nel jazz, un momento musicale. Adesso la mia responsabilità è quella di trascinare i miei fan e soprattutto chi acquista i miei dischi dal punto di vista delle liriche. Ci sono già riuscito con Era tutto un sogno e Rock Steady è una conferma».


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