Lo spettacolo di François Tanguy è una esperienza sublime in cui musica, testi, danza, luci e colori concorrono a produrre il moto dellambiente dove lattore diventa una forma diafana dietro un velo che ci separa dalla verità
Ricercar lo spazio dellarte
Ricercar,François Tanguy, Théâtre du Radeau
by Father_Bokaj
Tempo fa, ad un incontro pubblico su danza teatro e residenze un direttore artistico, rispondendo alle sollecitazioni di un uomo colto e raffinato che sosteneva come il futuro di una città si misurasse anche dalla sua sensibilità e adesione verso l’arte contemporanea, disse che non bisognava confondere i piani e che una cosa è il teatro, una cosa la danza, una cosa la musica e via di questo passo. Pensai: che ne doveva essere di artisti come Wilson o la Bausch?
Lo penso di più oggi, reduce dalla visione ipnotica di Ricercar, spettacolo di François Tanguy (segnamoci questo nome) e del suo Théâtre du Radeau, andato in scena all’Ateliers Berthier (seconda sala dell’Odeon di Parigi), in seno al Festival d’automne. È arrivato anche in Italia, dove è stato replicato tre giorni fa nell’ambito del festival del teatro di Pontedera.
Ammetto la mia ignoranza: sapevo poco o nulla di Tanguy, della sua ricerca, del suo teatro. La visione dello spettacolo mi fu “imposta” da un uomo che e per me un faro, J. P. Manganaro (docente all’Università di Lille, uno dei più grandi studiosi di letteratura e teatro in Europa che ha appena dato alle stampe un volume su Tanguy, ndr) dicendomi che non avrei avuto da pentirmene.
Ho faticato ad entrare dentro le maglie di questa mise en scene che, dico subito, è sublime, perché è uno spettacolo sfuggente e delicato che mette a dura prova la capacità di comprendere, essendo il suo scopo principale, credo, quello di sedurre.
La scena che ci si presenta all’inizio e una sorta di scatola rovesciata sul lato e
che contiene altre scatole. Fuor di metafora uno spazio dentro uno spazio dentro un altro spazio, un luogo teatrale che si sviluppa in profondità, diversamente illuminato, e comunque molto buio.
Ed è vertigine quella che prende quando lo scena comincia a muoversi, gli attori ad agire e le immagini a risalire prepotenti sulla scena. Musica, danza, colori, tutto concorre a produrre il moto dell’ambiente, in cui non è più l’attore che recita ma lo spazio. E lo spazio muta col mutare della luce, muta genere e forma, è agito dagli attori che divengono essi stessi sue forme, e che cambiano la conformazione dei luoghi attraverso l’uso e lo spostamento di quinte mobili,
piccoli pannelli rettangolari, che sovrapponendosi alla luce, tagliano la
prospettiva e la ridisegnano.
Siamo dentro un quadro, di più, siamo dentro un’architettura, un luogo che non è urbano né campagna, un luogo che diventa segno reale, potenza fisica; è lo spazio dell’uomo, che prende corpo sotto i nostri occhi e che viene popolato ed interferito con la musica (scelta ampia e varia, da Berg a Verdi, Stravinsky, Berio, Scarlati, Sibelius ed altri ancora) e con le parole. Testi che gli attori recitano in una sorta di lunghi monologhi, testi che vanno da Gadda a Campana a Pirandello a Leopardi a Dante, per citare gli italiani, ma che passano anche per Mandelstam, Walser, Lucrezio, Pound, Villon, Kafka, Buchner, recitati spesso in lingua originale, mutati in suono, in correnti d’energia.
Non c’è significato nascosto dietro le parole, non c’è messaggio da prendere,
afferrare, trasmettere. È il teatro come spazio dell’uomo e dell’arte, come luogo culto della bellezza, che viaggia sulla scena in una sorta di fuga in cui gli attori, sempre poco illuminati, finiscono quasi con lo scomparire, diventando essi stessi esili silhouette, forme diafane dietro un velo che ci separa dalla verità, verità che solo l’arte, quest’arte che non fa differenze né distinzioni di linguaggio, può contenere.
Ed è in questo mistico rapimento, in questa visione quasi trascendentale che il
corpo si scioglie per poi ricomporsi, avendo imparato, imparato con gli occhi e
con la carne, che solo un’arte libera ed immaginifica eleva l’uomo e lo distingue
dalla ferinità che veste e denota i nostri gesti quotidiani, sempre più poveri e
banali.
È uno spettacolo totale di teatro e per il teatro. È una ricerca di senso, Ricercar, che non manda cartoline o telegrammi. È un invito alla visione e alla bellezza, e forse, in ultimo, anche all’intelligenza.
Spettacolo dell’anno, spettacolo sublime appunto.
*Salvo Gennuso è regista teatrale e direttore artistico della compagnia Statale 114. Si occupa di drammaturgia e di creazioni contemporanee. È stato ospite dell’ultima edizione del Mittelfest, lavora con Elaine Bonsangue. Conduce laboratori teatrali all’Università di Catania (Tradurreperlascena) e nelle carceri.