Pippo Fava e il piacere della libertà

Pippo Fava e la sua famiglia, la mafia, le donne, i suoi editori, i colleghi, il Pci, il palazzo di giustizia, i suoi carusi. Pippo Fava e Catania. E quel richiamo insopprimibile che lo porta nel 1980, dopo tre anni trascorsi a Roma, all’apice del suo percorso di maturazione artistica, a tornare ai piedi dell’Etna. C’è tutto nel libro del giornalista Massimo Gamba “Il Siciliano”, presentato venerdì scorso alla libreria Feltrinelli di Catania. La sensazione, arrivati all’ultima pagina, è quella di aver conosciuto davvero Pippo Fava e di sapere tutto sulla Catania degli anni ’80, su quegli attori che, indissolubilmente legati, hanno garantito per vent’anni un granitico e perverso sistema di potere.
 

Perché, da giornalista estraneo alle dinamiche siciliane, hai scelto di raccontare la storia di Giuseppe Fava?

È stata una decisione presa insieme al direttore della collana, Luca Telese. Ci sembrava una storia interessante, ma che non era stata ancora raccontata compiutamente. C’era molto materiale sparso, ma mancava un racconto unitario della sua esperienza umana e giornalistica.

Quanto tempo hai impiegato per scrivere il libro?

È servito un anno per raccogliere il materiale e incontrare le persone coinvolte. E sono state tante: colleghi di lavoro, amici, semplici conoscenti. Ne ho incontrato almeno trenta che mi hanno aiutato a scoprire l’uomo Fava, la figura di intellettuale che va oltre l’eroe antimafia.

Dedichi particolare attenzione ad un elemento chiave: Fava prima di combattere una battaglia per la legalità, ha combattuto per la libertà d’espressione…

È il punto che tenevo maggiormente a sottolineare. Anche perché di stretta attualità. Studiando la sua vita, emerge in maniera netta che Pippo Fava, pur essendosi occupato di mafia sin dall’inizio della sua carriera, non aveva la vocazione dell’eroe. Era una persona attaccata ai piaceri della vita. Ma era anche un giornalista con un senso etico molto forte del mestiere, sentiva la necessità di raccontare la realtà che aveva di fronte. E a Catania negli anni ’80 si scontrò contro un sistema di potere in cui la mafia era solo un tassello. Facendo il giornalista fino in fondo è diventato automaticamente un combattente per la legalità.

Fai luce coraggiosamente su un argomento tabù della vita di Fava: il suo rapporto con le donne. Hai trovato ancora oggi difficoltà a discuterne con parenti e amici?

Alcune difficoltà sono legittime. È chiaro che i familiari abbiano un certo pudore a parlarne perché è una questione che ha creato dei problemi in famiglia. Ma lo stesso pudore l’ho ritrovato in colleghi e amici che non avrebbero motivo di tacere questo aspetto vitale del personaggio. Purtroppo è il risultato del processo di delegittimazione portato avanti dalla mafia e dalla stampa dopo l’omicidio. Una delle versioni più cattive fu proprio quella del Pippo Fava donnaiolo. Questa storia è andata avanti per anni e tuttora ci sono persone che la credono vera. Sono rimasto abbastanza sconvolto e mi sono impegnato per sganciare questo aspetto bellissimo e importantissimo della sua personalità dal processo di delegittimazione.

Che idea ti sei fatto del rapporto che la sinistra di allora aveva con Pippo Fava? In particolare il Pci?

Il rapporto della sinistra e del Pci con la mafia in Sicilia è piuttosto controverso. Sono esistite e forse tuttora esistono nella sinistra due anime. Una che ha sempre cercato di combattere la mafia senza fare calcoli, un’altra che, secondo gli stilemi della realpoltica, ha cercato di farci i conti. Questo ha fatto sì che un’esperienza come quella dei Siciliani sia stata accolta in maniera tiepida, e che Pippo Fava sia diventato un eroe antimafia solo dopo la sua morte.

Definisci “garantista” l’articolo di Fava sui quattro cavalieri dell’apocalisse mafiosa. In che senso?

Nonostante Fava sia stato il primo a parlarne, lo ha fatto in maniera non giustizialista. In alcuni passaggi di questo lungo articolo, più volte sottolinea che non ci sono ancora elementi per mandare in galera i quattro imprenditori. Le prove arriveranno solo dopo. Tuttavia c’erano già sufficienti sospetti per parlarne pubblicamente. Ma raccontare la verità fino in fondo non significa diventare giustizialisti, come oggi qualcuno vuol far credere. Come dimostra Fava si può fare anche garantendo il rispetto della persona, senza che questo significhi non parlarne.

Dedichi ampio spazio a quello che viene definito “il palazzo di ingiustizia”. Pensi ci sia una continuità tra la Procura degli anni ’80 e quella di oggi?

Incontrando molti catanesi, mi dicono che la Catania di oggi è forse peggio di quella degli anni ’80. Sinceramente fatico a crederci. So che il principale responsabile dei depistaggi durante il processo Fava, il giudice Giulio Cesare Di Natale, è andato tranquillamente in pensione molti anni fa. Pur essendo una persona collusa in maniera pesante, se l’è cavata anticipando di qualche mese la pensione.

Hai trovato difficoltà a pubblicizzare il tuo libro a Catania? Qual è stata la reazione del giornale La Sicilia?

Siamo ancora all’inizio e sono curioso di vedere come reagirà la città. La sensazione è che un po’ di curiosità ci sia, anche se ristretta in ambiti particolari. Con La Sicilia non ho avuto nessun contatto. Durante la fase di scrittura del libro ho chiesto un incontro a Mario Ciancio, sapendo che non me lo avrebbe mai concesso. In ogni caso mi sembra difficile che si occupi di questo libro, perché è abbastanza duro con la gestione del giornale che molto ha coperto quel sistema di potere che teneva in pugno la città.

Tra le persone che hai incontrato, c’è una figura che ti ha più impressionato?

Sono molte, ma ne dico tre. Un personaggio come Riccardo Orioles, che ha speso la sua vita per la lotta alla mafia e per un’informazione libera a Catania, non te lo levi più dalla mente. Elena, la figlia di Pippo Fava, è una donna straordinaria che si è sempre battuta per mantenere viva la memoria del padre. E poi Fabio Tracuzzi, il redattore dei Siciliani che definisco il compagno-fascista. Rappresenta l’esempio di un uomo dichiaratamente di destra che in quegli anni, fortemente ideologizzati, ha lavorato con persone di sinistra creando un amalgama straordinario.


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