Musica e performing arts. Esploriamo la modernità

Etnafest è alla sua quarta edizione. Forse un po’ più sperimentale che nel passato. Abbiamo fatto quattro chiacchiere col direttore artistico della sezione musica, Gianni Gualberto Morelenbaum.

Direttore, una delle novità di quest’anno riguarda la comunicazione che punta sulla parola “Respiro”. Che significa?
«E’ una trovata grafica, che però condivido. Simboleggia il respiro culturale che Etnafest si propone di trasmettere alla città. Per quanto riguarda la musica, questa è l’edizione di Etnafest a me più cara perché ha una fisionomia piuttosto definita, di maggiore originalità».

Ha un filo conduttore più univoco?
«Etnafest è più di una semplice stagione di concerti. è una manifestazione che vorrebbe continuare a “esplorare”, portando a Catania gli spettacoli di artisti che è difficile trovare altrove in Italia. Soprattutto si propone di esplorare i forti rapporti tra tecnologia e musica, tra musica e le cosiddette performing arts, che oggi sono il contenitore più significativo della sperimentazione. La fusione di teatro, poesia, danza da noi è ancora pochissimo frequentata, mentre altrove rappresenta un contenitore di tutto ciò a cui mi rivolgo».

Quindi considera questa edizione più “sperimentale” rispetto alle precedenti?
«In realtà Etnafest ha sempre puntato alla sperimentazione. I primi tre anni si è puntato sulla qualità, nei vari generi musicali. Però in realtà lo scopo è sempre stato duplice. Da un lato rendere il territorio anfitrione di qualcosa di molto specifico e peculiare. Nessuno sembra pensare alla Sicilia come una terra che possa ospitare e stimolare la contemporaneità. La Sicilia è sicuramente una terra con delle radici storiche fortissime, ma perché non può essere anche ponte verso la modernità?».

E poi?
«Dall’altro lato vogliamo far capire che la sperimentazione non è qualcosa di terrificante. Questo è un concetto fondamentale nella nostra cultura, in quella italiana più che in quella siciliana. La contemporaneità è più frequentata dai centri sociali che dalle sedi istituzionali. Questo rende il nostro paese un po’ marginale. Allora, cerchiamo di far capire che la sperimentazione è una boccata di aria fresca, che se anche la globalizzazione produce colossali guasti, in campo culturale e musicale ha prodotto anche delle straordinarie realtà, ovvero la possibilità di dialogare in un mondo che ormai non dialoga più».

Pensa che l’obiettivo sia andato o stia andando in porto?
«Le cose non vanno mai completamente in porto perché altrimenti vivremmo in una società diversa, però il mio dovere lo sto facendo. Catania ha una popolazione giovanile molto ampia, magari una larga parte di questa popolazione segue Gigi D’Alessio piuttosto che John Cage, il Festivalbar piuttosto che il Festival di Salisburgo, ma credo che ci sia  un pubblico che ama anche le cose di nicchia, ci sono molte realtà particolari, che staimo coinvolgendo, dopo alcune difficoltà iniziali».

Tornando al programma della manifestazione, cosa ritiene più rappresentativo della sua  filosofia?
«Uno degli elementi discriminanti di Etnafest è “donare” dei workshop alla città. In questo modo si permette all’artista di lasciare una traccia, alla popolazione artistica (o aspirante tale) cittadina di avere un rapporto altrimenti impossibile o troppo costoso. Ad esempio, ci saranno il workshop di Steve Martland (che è al suo terzo anno a Catania); il gruppo Bang on a can – che ha dato vita a un festival di musica contemporanea a New York – farà un workshop in cui chiederà la collaborazione di un gruppo di musicisti catanesi. Ci sarà poi un lungo workshop di una delle migliori compagnie di performing arts americane,Visionintoart. La leader, Paola Prestini, è una compositrice italo-americana che insegna alla Julliard School di New York ed è parente del rettore Recca, anche se non si sono ancora mai incontrati».

Qual è lo scopo?
«Creare una serie di lavori scritti da musicisti locali che poi verranno portati in scena prima qui e poi a Londra nel caso di Steve Martland o a New York nel caso di Bang on a can e di Visiointoart. Per il resto vorrei sottolineare che gran parte dei concerti in cartellone sono realizzati da un’unica comunità di musicisti che lavora nella downtown di New York in un campo senza confini che spazia dall’avanguardia all’hard rock e fa sperimentazione pura. Vorrei che questi musicisti arrivassero qui, lavorassero qui e creassero delle cose inerenti al tessuto catanese. Catania è una città molto adatta per realizzare un laboratorio perché è attraversata da molti stimoli sotterranei, nonostante una facciata molto convenzionale».

E il rapporto con l’università?
«C’è un dialogo molto stretto con l’istituzione, ma va ancora costruito un rapporto con la popolazione universitaria che ha bisogno di un altro tipo di coinvolgimento. Per questo penso che mezzi di informazione come il vostro, Step One, Radio Zammù vadano coinvolti al di là che si possano condividere o no determinate cose. Io vado nei siti universitari, leggo i blog e ho sempre notato una forte reattività, anche emotiva, e molta preparazione. Ho sempre visto nei giovani la parte migliore della città e credo che il compito primario di Etnafest sia conquistare quel pubblico. Anche  per questo i prezzi dei biglietti sono bassissimi».


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