Monastero SPA

Dlin dlon. «Si comunica alla gentile clientela che da oggi, per sette giorni, per ogni massaggio al cioccolato effettuato all’interno della nostra struttura si potrà ritirare presso la reception del salone di bellezza un buono valido per una piega omaggio».

Dlin dlon. «Si comunica alla gentile clientela che da oggi, per sette giorni, per ogni massaggio al cioccolato effettuato all’interno della nostra struttura si potrà ritirare presso la reception del salone di bellezza un buono valido per una piega omaggio».

I clienti, dal sesso variamente distribuito tra femmine, maschi e confusi, smisero all’istante di leggere i loro rotocalchi scandalistici e tesero le orecchie come cani. Avessero avuto la coda, avrebbero scodinzolato.

Con fare forzatamente indifferente continuarono a passare in rassegna la foto-storia dell’ultima relazione clandestina dell’ex Presidente del Consiglio, attualmente Papa, Presidente della Repubblica e celebratissimo pornoattore, sbuffando per fingere noia. Il piano, per la maggior parte degli astanti, era il seguente: posare la rivista sul tavolino della sala d’aspetto e mettersi ad osservare con interesse il listino prezzi, quindi andare dalla ragazza alla reception e domandare, noncuranti: «Scusi, in cosa consiste il massaggio al cioccolato?». La spiegazione li avrebbe pienamente soddisfatti e loro ne avrebbero prenotato uno immediatamente, sorprendendosi quando la ragazza avesse aggiunto: «Ecco il coupon per la piega omaggio». «Piega omaggio? Quale piega omaggio?». «Quella che i nostri altoparlanti hanno annunciato poco fa». «Uh, non l’ho mica sentita. Sa, stavo leggendo il giornale…».

Nel giro di poco più di un’ora sarebbero stati prenotati una trentina di massaggi, ciascuno dei quali costava sei volte una piega.

L’ingegnere Martini, proprietario del Centro Estetica, Benessere, Relax, Abbronzatura e Quant’altro “Monastero dei Benedettini”, era un mago degli affari. Aveva rilevato questo gigantesco e decrepito edificio nel pieno centro di Catania poco dopo che la crisi economica aveva spinto il sindaco a siglare un accordo che destò scalpore con l’ultimo Rettore, figura mitica dalla leggendaria ignoranza. In pratica: il Comune avrebbe ceduto gratuitamente l’ex Monastero al Rettore (non all’Ateneo, al Rettore in persona), a patto che l’Ateneo (non il Rettore in persona, l’Ateneo) sostenesse da solo tutte le spese, senza chiedere finanziamenti e roba del genere. La città insorse: un edificio di quel pregio donato ad un uomo soltanto, che spreco! Perché non distruggerlo e farne uno stadio per il Catania Calcio?

Il sindaco si scusò, disse che non ci aveva pensato e, per farsi perdonare, regalò buste di pasta, chili di pane e croissant, perché qualcuno gli aveva raccontato la storia di Maria Antonietta di Francia che, a chi la informava che il popolo aveva fame, rispose: «Che mangino brioches!».
I catanesi lo perdonarono e lo rielessero ad occhi chiusi, per le quattordici volte successive.

L’ultimo Rettore, ormai proprietario del Monastero, comunicò che, per risanare le casse di alcune facoltà particolarmente indebitate, avrebbe trasformato le vecchie cellette in lussuose stanze da letto da affittare a ricchi turisti, i quali avrebbero assistito, comodamente sdraiati sulle lenzuola, alle lezioni che si sarebbero svolte normalmente, per non danneggiare la didattica.

Ci si rese conto che la situazione stava diventando insostenibile quando alcune coppie spregiudicate inaugurarono la fortunata stagione del kamasutra a lezione. Provavano tutte le posizioni, mentre i professori tentavano di spiegare libri ben più noiosi. Inizialmente, gli studenti si mostrarono imbarazzati, poi ci presero gusto, dimenticarono la didattica, gli esami e le lauree, e avviarono un mercato di contrabbando di filmini amatoriali.

L’ultimo Rettore in persona risolse il problema con un’azione coraggiosa, netta e convinta: sospese a tempo indeterminato le lezioni, ma lasciò le stanzedaletto-cellette aperte, piazzando uno studente part time all’ingresso di ciascuna. Per staccare i biglietti.

La voce di un’università particolarmente votata ai piaceri arrivò all’orecchio dell’allora Presidente del Consiglio, il quale spostò al Monastero tutti i suoi impegni di due mesi, il 90% dei quali si svolgevano su un materasso, in coppia, in gruppo o in solitaria.

L’ultimo Rettore, in orgasmo per questa decisione del tutto inaspettata del Premier, ordinò che il Monastero fosse, per l’occasione, tirato a lucido. Per pagare i giardinieri mise in vendita perfino cattedre e immatricolazioni. L’annuncio su un quotidiano locale recitava: «L’ex Monastero dei Benedettini apre al Presidentissimo e liquida tutto. Svendita totale. Per i primi cento acquirenti, in regalo un set di pentole in acciaio inox».

Fu un successone: orde di catanesi, richiamati dalla promessa del regalo post-acquisto, si buttarono a capofitto nella mischia delle compere selvagge. C’era chi portava via i ciottoli del cortile, chi le tegole dei tetti, chi la carta igienica dei bagni, chi la testata del giornale degli studenti e il logo della radio universitaria.
L’ultimo Rettore si ritrovò pieno di soldi con un Monastero a cui erano rimaste, praticamente, solo le pareti. Fece una telefonatina ad un suo amico, dirigente Ikea, e in un batter d’occhio un edificio con secoli di storia alle spalle sembrava uscito da un catalogo Postalmarket.

Il Presidente del Consiglio adorò quella pacchianeria, quella negazione di qualunque gusto artistico, quel rifiuto di rispettare un passato imponente, e rimase un mese in più, mangiando a scrocco coi soldi dell’ultimo Rettore, deflorando ambiziosestudentesse-futureveline, ridicolizzando l’istruzione. Insomma, facendo il suo mestiere.

L’ultimo Rettore, fiero di aver offerto un servizio così encomiabile al suo unico e solo mito vivente, non volle fare la figura dello spilorcio e spese più di quanto aveva guadagnato. I creditori aspettarono che il capo del governo tornasse nella capitale, poi assediarono il padrone di casa. E furono implacabili.

A questo punto della storia intervenne l’ingegnere Martini, uomo di mondo e d’aperitivo. Camminava con un flute in mano, una fiaschetta di spritz in tasca, un barattolo di olive bianche denocciolate nella ventiquattrore e un galoppino che gli porgeva documenti di vitale importanza da firmare.
Fece all’ultimo Rettore una proposta che non si poteva rifiutare: non solo avrebbe dato soddisfazione agli strozzini, ma avrebbe anche versato nelle sue casse il triplo dell’ammontare dei debiti.
L’ultimo Rettore non sapeva contare ed era stupido: naturalmente, accettò.

L’ingegnere Martini aveva acquistato un intero ex Monastero di secoli e secoli fa, arredato da Ikea, pagandolo quanto un monolocale senza mobili nella periferia di Milano. Quella sera, finì in un sorso la fiaschetta intera, senza assaggiare nemmeno un’oliva e siglando tutti gli incartamenti arretrati. Era felice.

Gli studenti universitari reduci dalle compravendite dell’ultimo Rettore furono corrotti uno dopo l’altro. L’ingegnere Martini offrì a tutti una serata open bar e fornì hashish e marijuana bastevoli per un plotone di cento elementi: peccato che loro fossero una ventina. Si ubriacarono e si drogarono, neanche fossero il futuro della politica italiana. Mentre erano tutto fuorché lucidi, l’ingegnere Martini fece accettare loro un documento che chiunque avrebbe definito spregiudicato: v’era scritto sopra che gli ultimi venti universitari catanesi rinunciavano coscientemente agli studi, che approvavano l’eventuale chiusura dell’Ateneo e ritenevano che la responsabilità non sarebbe stata in quel caso da attribuire all’eminentissimo Martini, bensì al darwinismo e alla selezione naturale, che identificava come più deboli gli studiosi occhialuti e segaioli.

I venti ex universitari si risvegliarono sulle scalinate della palestra San Nicolò, in piazza Dante, con un poderoso mal di testa, i vestiti odorosi di canna, e un paio di centoni nelle tasche. Naturalmente, non si ricordavano niente. Quando trovarono la forza per alzarsi in piedi e riacquistarono il senso dell’orientamento, si trascinarono davanti al portone dell’ex Monastero dei Benedettini. Era lunedì mattina e, per la prima volta da moltissimo tempo, era tutto chiuso. All’interno di quelle mura avrebbe dovuto giacere il meglio della cultura siciliana di centinaia di anni, in realtà c’erano soltanto mobili svedesi montati alla meno peggio, poiché decenni prima, perfino prima dell’ultimo Rettore, con un colpo di coda, il meglio della biblioteca e il grosso degli iscritti erano stati trascinati all’interno del ricco e fiorente quarto polo universitario, un triangolo amoroso che vedeva Enna e Siracusa farsi reciprocamente l’occhiolino, mentre Ragusa provava a circuirle entrambe.

I giovani si sentirono traditi, chiesero udienza all’ingegnere Martini, il quale mostrò loro i fogli firmati e alcune foto compromettenti abilmente photoshoppate, infine li trascinò nell’aula Santo Mazzarino, adibita a studio televisivo. Mentre Brunello Vespa jr. esaminava la situazione politica italiana baciando i piedi degli esponenti più noti del clero che, naturalmente, corrispondevano anche ai Ministri con mandato vitalizio nominati dal plurincaricato ex Presdelcons., Martini dietro le quinte faceva vedere a quei venti ragazzotti stupiti un plastico d’epoca. La targhetta recitava: “Cogne, Erba, Monastero”.

Teatrale ed ispirato, Martini si lanciò in un monologo che avrebbe ricordato Shakespeare, se fosse stato completamente diverso.

«Miei cari giovani, consentitemi di presentarvi in anteprima il più grandioso, mirabolante, tinteggiante, ottovolante progetto che sia mai stato concepito in questa città. L’università, fino all’intervento del nostro amatissimo ex Premier – sia lodato, sempre sia lodato – non era altro che la fabbrica del dissenso. Togliendo un po’ qua e un po’ là, con impegno e devozione, sono riusciti a renderla realmente luogo di formazione della casta politico-economico-erotico-finanziaria di questa raggiante e cattolica Italia. A Catania il processo di sfaldamento dell’istituzione universitaria, sessantottinianamente intesa, sembrava essere più rapido che nel resto del Paese. L’ultimo Rettore, poi, è stato egregio. Pensate, è appena stato nominato Ministro della Provata Istruzione, ché chi l’ha preceduto ha avuto la geniale idea di rimanere incinta. Ma non divaghiamo. Il punto è che siete rimasti solo voi, avete firmato tutto quello che dovevate firmare e vi siete, finalmente, tolti dai coglioni. L’ex Monastero dei Benedettini diventerà il più grande centro di bellezza del Mediterraneo: faremo le terme, la sala massaggi, una palestra che farà concorrenza e manderà in fallimento quei comunisti del San Nicolò, il salone dei coiffeur, un ring pieno di fango per le ragazze, poi la sauna, il bagno turco e, per chi apprezzasse il genere, il bagno col turco. Sarà un progetto all’avanguardia, saremo il faro che illuminerà la Catania del Bellini, il cocktail che c’invidiano in tutta la nazione».

Ancora scossi dalla notte precedente, cinque dei venti sentirono “Bellini” e corsero in bagno a vomitare l’anima, lo stomaco e un pezzo di intestino. Nessuno li vide mai più, e si diffuse la voce che annegarono nel water, ne furono risucchiati, che i loro corpi furono ritrovati sulle coste della Libia ed esposti sulla pubblica piazza a mo’ di monito contro chiunque volesse clandestinamente andare dall’Italia alle coste africane, notoriamente più ricche e politicamente stabili.
Martini prese fiato, bevve un sorso di spritz, mangiò tre o quattro olive denocciolate, approvò un paio di bilanci e sei transazioni bancarie e proseguì: «Siete giovani e di bella presenza, più o meno, ma questo non conta perché esiste la chirurgia plastica. Dicevo, siete giovani e potete ambire all’essere di bella presenza, quindi, dopo la debita preparazione tecnica, potreste diventare il personale che lavorerà all’interno di questo posto. Vi pago quindici centesimi più di quanto pagava l’università gli studenti per il part time. Ben otto euro l’ora. Ci state?».
Dopo musioni, tensioni, circospezioni, infrazioni e altre libagioni, tutti e quindici firmarono il contratto.

I quattro fratelli Manifesto, Ernesto, Libero, Gioia e Fausto, accettarono le condizioni di lavoro peggiori, dopo liti interminabili che sfinirono Martini.
«Vi faccio responsabili del settore cerette, purché mi lasciate in pace», implorava Martini, esausto. «Il minimo sindacale è una battaglia che i nostri compagni operai portano avanti da decenni, eppure lavorano nelle fabbriche per poco più di sei euro l’ora. Pretendiamo di essere sfruttati tanto quanto loro, altrimenti chiamiamo il sindacato», gridavano a turno Ernesto e Libero, mentre Gioia e Fausto minacciavano d’incatenarsi per protesta davanti alla porta dello studio tv, impedendo l’ingresso alle soubrette ospiti di Vespa jr..
«Voi siete pazzi, io non vi assumo più!»
«Faremo scoppiare un caso. Il segretario nazionale del sindacato, il dottor Infermo, s’accorderà perfino con la Cei, ché siamo tutti battezzati, comunionati, cresimati e peccati, le prime tre contro il volere della buonanima di papà, l’ultima da lui fortemente caldeggiata».
«Andatevene a quel paese. Io non vi metto in regola nemmeno se m’ammazzate!».

I fratelli Manifesto festeggiarono: lavorare in nero andava oltre ogni loro più rosea speranza.
L’ingegnere Martini dovette scolarsi un altro bicchiere di spritz per riuscire a calmarsi.

I fratelli Manifesto erano i figli dell’ultimo dirigente del fu acclamato PdCI, Partito dei Compagni Impenitenti. Pugno chiuso, bandiera rossa, tatuaggio del “Che” sul cuore e incapacità cronica di chiamarsi per nome. «Compagno Manifesto!». «Oh, che piacere Compagno Battaglia! Come stanno tua moglie e i bambini?». «I bambini bene, ma mia moglie dev’essere vicina ad un esaurimento nervoso, povera donna. L’ho vista uscire da un fast food ingurgitando patatine in fretta e furia». «Sommo smacco. E tu che hai fatto?». «Non volevo umiliarla in mezzo alla strada, ché poi si sarebbe detto che il partito soffre di conflitti interni, così sono andato al mercato equo, costoso e solidale e ho comprato un chilo di pomodori raccolti in Puglia dai Compagni della penisola. Un chilo di bellissimi e rossissimi pomodori in linea con la nostra politica, per la modica cifra di ventisette euro». «Ottimo, Compagno Battaglia. Ottimo. E poi che hai fatto?». «Li ho lanciati tutti, uno dopo l’altro, sulla vetrina del fast food». «Compagno Battaglia». «Sì, Compagno Manifesto?». «Trovo che tu meriti una promozione, dovresti guidare le alate schiere del partito». «Mi lusinghi, Compagno Manifesto». «Ti tributo i dovuti onori, Compagno Battaglia».

Ernesto, Libero, Gioia e Fausto erano cresciuti avendo per esempio un padre di siffatta levatura morale. Avevano imparato a leggere, tutti e quattro, con la favola “Cappuccetto rosso”, la storia di una coraggiosa partigiana che, da sola, trucidò un intero paesino di nazisti arroccati sulle nostrane Alpi, intonando “Bella ciao” e alcuni canti popolari russi.
Parlavano correntemente il russo, appunto, lo spagnolo, il portoghese e il cinese mandarino. L’inglese no, perché era una lingua capitalista e lontana dal mondo del proletariato urbano.

I fratelli Manifesto, però, non erano stupidi come il loro orientamento politico vorrebbe far credere. E all’università ci andavano un po’ perché gli serviva un posto dove credere di sfidare la legge fumando erba, un po’ perché avevano un nonno che aveva combattuto per l’istruzione pubblica e poi era andato in tournée con Lady Gaga, e soprattutto perché studiare, a tutti e quattro, non dispiaceva. Avevano preso il portone chiuso dell’ex Monastero dei Benedettini come una pugnalata in pieno petto e avrebbero fatto qualunque cosa per restare là dentro e lamentarsi dell’aumento spropositato delle tasse e dell’infame riduzione del numero di appelli ordinari.

Quella sera, con la sensazione di chi ha borghesemente venduto l’anima al diavolo, i fratelli Manifesto tornarono a casa, una depandance di otto vani, doppi servizi e cucina, a pochi metri dalla piscina olimpionica nel giardino della villa del Compagno Manifesto senior, il rispettatissimo padre che onestamente era arrivato da poveraccio alla dirigenza del partito e disonestamente da riccone al pensionamento.

«Ci fosse qui mamma saprebbe dirci lei che fare», esordì Libero, accasciandosi sul megadivano del soggiorno.
«Ma mamma è a fare shopping a New York e le intercontinentali costano quanto il debito pubblico della Grecia», lo interruppe annoiata Gioia.
«Quand’è che dobbiamo andare a lavorare?», domandò Fausto.
«Ha detto che ci chiama lui quando è finita la ristrutturazione», rispose Ernesto.
I fratelli Manifesto erano tristi, di una tristezza nera. E loro quel colore non l’avevano mai sopportato.

Due mesi dopo, il Centro Estetica, Benessere, Relax, Abbronzatura e Quant’altro “Monastero dei Benedettini” andava a pieno regime.
Gioia, la receptionist, aveva una magliettina rosa attillata e un paio di pantaloncini bianchi, corredati da perizoma in coordinato con la maglietta, ben visibile ad uso e consumo dei clienti. Ernesto, detto Ernest, creava acconciature degne del miglior Edward Mani di Forbice e raccoglieva occhiolini e ammiccamenti dalle più note transessuali della regione. Si vociferava che avesse una relazione con QuelGranPezzoDell’Ubalda. Nome d’arte, ça va sans dire. Era una bellissima drag queen di venticinque anni, che all’anagrafe faceva Giuseppe Diolosa e che tre volte a settimana si faceva fare taglio, piega e colore da Ernest. E, a giudicare dal sorriso che sfoderava ogni volta che usciva dalla suite privata dove Ernest lavorava, lui non si prendeva cura soltanto della sua testa.

L’ingegnere Martini passeggiava per i patinatissimi corridoi del Monastero affiancato dall’amministratoredelegato-bracciodestroesinistro Libero Manifesto. Sembrava un maggiordomo e aveva sui capelli una corazza di gel che pesava due chili e quattrocento grammi. Si occupava di tutto quello di cui si occupano gli amministratori delegati: pagava le mazzette agli amministratori mafiosi locali affinché non si verificassero strani e ripetuti casi di autocombustione, organizzava le giornate dell’ingegnere Martini, gli passava i documenti da firmare e, soprattutto, gli faceva da barman personale.

«Uno spritz, signore?». «Certo, Libero». «Quante olive, signore?». «Da due a dodici, a tua discrezione». «Ghiaccio, signore?». «Che domande sono, Libero?». «Scusi, signore. Ha ragione, signore. Il suo spritz è pronto, signore. Intanto, una sigla qua sotto».

Dei fratelli Manifesto, l’unico che non ricopriva un ruolo di particolare visibilità era Fausto, il minore. Faceva il contabile, lui. Lavorava lontano da occhi indiscreti e faceva quadrare i conti senza particolari difficoltà, dato che il Monastero era realmente la punta di diamante dell’economia catanese. Venivano da tutt’Europa per partecipare al più grosso spreco di denaro di cui la storia abbia mai dato notizia, dopo la scelta delle sedi del G8, ovviamente.

L’ingegnere Martini si librava nell’aria, tronfio, e rimaneva legato al suolo soltanto grazie alle catene di banconote con le quali si ancorava ai corridoi, in una specie di rifacimento opulento del fantasma di Canterville.
Arrivava nella hall, salutava i clienti e girava dalla parte del bancone dove stava Gioia.
«Hai la faccia stanca, stamattina. Hai dormito poco, ieri notte?», le domandava mellifluo, spalmandole le cinque dita della mano destra sul sedere.
Gioia ridacchiava civettuola. La sera prima lui le aveva offerto una cena a base di caviale, ostriche, fragole, panna montata e champagne. Fausto l’avrebbe inserita nel bilancio sotto il capitolo “spese di rappresentanza”.
«Non sono riuscita a prendere sonno, quando mi hai riaccompagnata a casa…», rispose Gioia.
«E perché mai, tesoro caro?».
«Perché pensavo alla splendida serata».

Gioia, dopo aver mangiato e bevuto a sazietà, era stata sorpresa da un terribile malore, un mal di testa lancinante che l’aveva costretta a chiedere, con garbo, il piacere di essere riaccompagnata a casa. La settimana precedente, il dolore l’aveva colta allo stomaco. Quella prima ancora, ai denti. Da quasi un mese l’ingegnere Martini le ronzava attorno come una zanzara e lei, sistematicamente, si trovava a rifiutare le sue avances.
«Ripetiamo stasera?»
«Facciamo la prossima settimana? Sai, sono in quel periodo del mese…», gli disse con un sorriso smagliante. L’ingegnere Martini sbuffò, schioccò le dita e Libero si materializzò al suo fianco con uno spritz pronto. Tutt’e due lasciarono Gioia al suo lavoro ed uscirono nel cortile, dove si stava concludendo il campionato regionale di lotta femminile nel fango.

«Libero, cosa devo fare con quella gnocca di tua sorella?», domandò il Martini.
«Non saprei, signore. Non l’ho mai vista così interessata ad un uomo in vita mia, lo giuro».
 «Sono un uomo affascinante, non si può non rimanere ammaliati dai miei modi e dal mio potere, lo so. Il punto è che sono un uomo e QuelGranPezzoDell’Ubalda, sinceramente, mi ha un po’ stancato».
«Se mi dà il permesso, signore, vi organizzo una serata coi fiocchi».
«Libero, ma come farei senza di te?»
«Non lo so, signore. Intanto firmi qui».
«Cos’è?»
«La presa visione della legge due otto quattro sei uno…»
«Va bene, come non detto, firmo».

La settimana successiva il Centro Estetica, Benessere, Relax, Abbronzatura e Quant’altro “Monastero dei Benedettini” si prese un giorno di ferie.
Libero Manifesto aveva predisposto tutto affinché l’ingegnere Martini e Gioia Manifesto, finalmente, dessero libero sfogo alla propria passione.
Ernesto aveva preso in consegna Gioia in mattinata e, quando aveva finito con lei, l’aveva resa ancora più attraente del solito. Capelli rossi, poche lentiggini, carnagione chiara e fisico niente male fasciato in un abito nero di seta.
Per l’ingegnere Martini la cosa fu lievemente più complicata.
«Capo», spiegò Ernesto, «lei lavora troppo. Guardi qua! Ha i capelli secchi, sfibrati. Cominciano a diventare bianchi, alla tenera età di cinquantanove anni. Capo, lei è ancora un ragazzino, deve prendersi cura di sé».

L’ingegnere Martini, come consigliatogli dal giovane Fausto Manifesto, per l’occasione chiamato ad approvare le scelte stilistiche del fratello maggiore, si affidò alle sapienti mani di Ernesto e gli diede carta bianca perfino per la tintura.
«Quello che le sto facendo è un nero brillantissimo: non viene via nemmeno se si lava i capelli con la candeggina, garantito».
«Signore», lo interruppe Libero, entrando in sala, «ci sarebbe da mettere una firma qui».
«Ma anche oggi?», sbottò l’ingegnere Martini.
«Siamo a fine mese, c’è il bilancio da approvare», spiegò Libero.
«Confermo», annuì Fausto. E l’ingegnere Martini firmò.

Nel frattempo, lo studio di Brunello Vespa jr. era stato smontato e, al centro della grande sala vuota erano stati piazzati un tavolino rotondo con sopra una candela bianca e due sedie.

Puntuale come un orologio svizzero, l’ingegnere Martini alle nove prese posto: aveva i capelli neri talmente brillanti da sembrare catarifrangenti. Dopo cinque minuti, durante i quali Martini si scolò ben tredici spritz e mangiò centoquarantatrè olive denocciolate, Gioia entrò nella stanza, accompagnata dal piccolo Fausto, che faceva le veci anche di cameriere.
Martini percepì immediatamente che gli mancava l’aria.
Gioia Manifesto era bellissima.

«Signore, metta una firma qui, per piacere», intervenne Libero, mentre Gioia si sedeva.
«Il bi-bi-bilancio?», balbettò Martini, senza togliere gli occhi di dosso dalla scollatura della ragazza.
«Sì, signore, il bilancio. Faccio immediatamente portare gli antipasti. Nel frattempo, firmi anche qui».
Gioia descrisse all’ingegnere Martini tutta la sua infanzia e parte della sua adolescenza, poi iniziò a fargli uno spudoratissimo piedino e si potè permettere di muovere soltanto le labbra senza emettere alcun suono, perché tanto per lui era uguale.

Fausto portò impeccabilmente gli antipasti, il primo, il secondo e anche il dolce, e badò bene che i bicchieri di entrambi non si svuotassero mai. Di quando in quando, Libero faceva il suo ingresso con carpette piene di documenti: «L’ingiunzione di pa…». «Sì, okay, firmo». «La legge…». «Firmo». «Qua». «Firmo».
Poco prima di mezzanotte, Gioia si alzò in piedi e invitò a ballare l’ingegnere Martini, completamente ubriaco.
Fausto suonava il violino per la coppia. «Dico ai miei fratelli di andar via e di non disturbarci più?», sussurrò Gioia al capo.
Martini annuì e basta.
Fausto e Libero uscirono dall’ex aula magna intitolata a Santo Mazzarino, raggiusero Ernesto e tornarono a casa.

L’indomani mattina, l’ingegnere Martini dormì fino a mezzogiorno passato e si svegliò col sorriso sulle labbra, quando un venticello fresco gli sfiorò la faccia. La sera prima Gioia l’aveva baciato appassionatamente e poi l’aveva trascinato in una eccitante corsa per i corridoi del Monastero. Avevano varcato la soglia dei chiostri e lei lo aveva spinto sul prato. A lui girava la testa, lei gli baciò le palpebre, poi il naso, poi il collo, poi gli aveva sbottonato la camicia e gli aveva baciato anche il petto.

L’ingegnere Martini rimase a ricordare la sua notte di fuoco senza aprire gli occhi, finché qualcosa di umido gli toccò le labbra.
«Gioia…», sussurrò sorridendo, poi un alito caldo e pestilenziale lo fece quasi svenire.
Il suo primo pensiero fu di dire a Libero di prenotare una pulizia dei denti per la sorella, a nome Martini, naturalmente. Il suo secondo pensiero fu di aprire gli occhi. E lo vide. Un cane randagio gli stava respirando sulla faccia, gli stava sbavando sulle guance, osservandolo come un intruso.

L’ingegnere Martini si mise a sedere sul materasso e tastò sotto le coperte: come pensava, era nudo. Ma non era nella sua stanza. In effetti, non ricordava di esserci mai tornato, nella sua stanza. Finalmente, si guardò intorno. Era sull’uscio del grande portone dell’ex Monastero dei Benedettini. I battenti erano serrati.
Dopo qualche istante, si socchiusero, e ne uscirono fuori Libero, Ernesto, Fausto e Gioia Manifesto, tutti e quattro in blue jeans e magliette rosse.
L’ingegnere Martini fece per parlare, ma si rese conto di avere la bocca impastata e secca.
Probabilmente se ne rese conto anche il cane randagio, perché gli pisciò addosso.

«Caro ingegnere Martini», disse Libero, «dovrebbe stare ben più attento a quello che firma».
I fratelli Manifesto risero e rientrarono.

L’ingegnere Martini aveva lasciato loro, senza saperlo, tutte le sue ricchezze. Conti in banche svizzere, italiane, esotiche e marziane, immobili sparsi in giro per il mondo, opere d’arte, pub, discoteche, celebri brand d’abbigliamento alla moda, testate giornalistiche, azioni, buoni del tesoro, biglietti della lotteria. Un capitale immenso la cui cessione aveva approvato, centesimo dopo centesimo, tra un bicchiere di spritz e l’altro, mentre Gioia lo intontiva con le sue moine.

I fratelli Manifesto avevano calcolato tutto, perché se c’era una cosa che avevano imparato dall’ascesa politica del padre, oltre che il testo di “L’internazionale”, era che gli uomini soddisfatti di sé sono più tonti del normale.
Da uno spioncino nella porticina centrale dell’ex Monastero, i fratelli Manifesto osservavano la tintura dell’ingegnere Martini sciogliersi per via della pipì del randagio e passare dal nero brillante al rosa shocking.

«Avevi previsto pure il cane?», chiese Fausto ad Ernesto.
«No, speravo in una pioggia acida. Ma la pipì mi piace di più».
L’ingegnere Martini, con un lenzuolo bianco attorno alla vita, nel frattempo, cercava aiuto, gridava «Voi non sapete chi sono io» e tentava di fermare le auto in corsa buttandosi nel traffico. Tutti lo prendevano per matto.

I fratelli Manifesto si sedettero sotto gli alberi, accanto al ring pieno di fango.
«Adesso che facciamo?», domandò Gioia, sorridendo.
«E se rifacessimo l’Università, daccapo?», buttò lì Ernesto. Però non diceva per dire. Era serio, lui.


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Dall’agricoltura alle soluzioni per il caro energia; dalle rinnovabili di difficile gestione pubblica allo sviluppo delle imprese bandiera del governo di Renato Schifani. Sono tanti, vari e non semplici i temi affidati alla commissione Attività produttive presieduta da Gaspare Vitrano. Deputato passato dal Pd a Forza Italia, tornato in questa legislatura dopo un lungo processo […]