Mitico scorcio degli anni ’90

La Parigi della Bell’Époque, la San Francisco dei figli dei fiori, la Swinging London degli anni ’60. Tutti si ricordano di quelle città e dei protagonisti di quelle stagioni indimenticabili, giustamente celebrate fino diventare posti della memoria, miti, mete di pellegrinaggi di massa. A Catania, pochi anni fa, sì è vissuta una stagione altrettanto fulgida che purtroppo, a mio giudizio, nei ricordi di molti e nella memoria collettiva è già svaporata, quasi dimenticata. La raggiante Catania degli anni ’90.

 

Qualche articolo di giornale, ogni tanto, in quegli anni e dopo, ha cercato di mitizzare “la Seattle del sud”, la “movida”, quella Catania notturna che ogni sera calamitava e ammaliava frotte di gente, persone che arrivavano da tutte le città della Sicilia, da Palermo, persino da altre regioni del sud Italia.

 

Ora, dieci anni dopo, la vulgata più o meno ufficiale, tra disillusioni, rimozioni, giudizi di qualcuno che non ha vissuto quella stagione o che la guarda con occhi sbagliati, è che in quegli anni non sia successo niente di speciale al di là dell’apertura di qualche dozzina di pub nel centro storico, di una scena musicale a conti fatti provinciale, di chiasso, casino e qualche bottiglia di birra rotta. O si cerca di ridurre tutto a pochi tratti, di incarnare quei momenti in persone, in protagonisti (il compianto Francesco Virlinzi, Carmen Consoli, ecc) che, senza nulla togliere al valore dei singoli, rappresentano solo minuscoli tasselli di quel mosaico che purtroppo ora sembra essere disperso. 

Non era questo.

 

Qualche tempo fa, seduti in un tavolino dell’Hard Rock Café, una mia amica palermitana trasferitasi da pochi mesi a Catania, guardò la sua birra bevuta solo a metà, si guardò intorno e mi chiese: “erano anni che sentivo parlare della movida catanese, ma in fondo che c’è di speciale? I pub come ci sono dappertutto e un po’ di passeggio tra i locali.” Come darle torto? Ma forte e sicuro dei miei ricordi sono andato indietro con la memoria a cinque, forse dieci anni prima e ho cercato le parole. E ho cercato di spiegare, a lei e a me stesso in quel momento: pub, qualche birra, confusione: non era questo. Erano le idee. Quello che in quel momento ci portavamo appresso in quei pub appena aperti, dentro quei bicchieri di birra vuotati subito, in mezzo alle note di quei concerti improvvisati in ogni angolo di strada, erano le idee, idee forti, e soprattutto un sentimento inossidabile di ottimismo, un guardare con sguardo teso e forte a noi e al futuro, una vibrazione di fiducia condivisa. La raggiante Catania degli anni ’90 è stata una bellissima e indimenticabile sensazione di ottimismo condiviso.

 

Il centro storico è cambiato quasi nel giro di poche sere. Io abitavo in periferia e scendevo al Teatro Massimo perché avevo l’abbonamento all’opera del pomeriggio. Uscivo dal teatro alle otto e restavo subito ubriaco da quello che c’era attorno. Apriva un pub nuovo a settimana. E i pub non erano i luoghi con tavolate dove si ammuffisce in attesa di un’ordinazione e si parla dell’ultimo modello di telefonino. Erano caffé letterari, luoghi di sperimentazione, officine musicali, piccoli teatri off. Bastava entrare per sentire musica dal vivo, magari improvvisata, parlare con gente che aveva qualche idea nuova da proporre, fare un incontro insolito o un’amicizia nuova. Ogni posto aveva un’atmosfera diversa: l’Iguana, gli Irish pub di piazza Scammacca, l’Ixtlan che passava sempre jazz e che mesceva whisky scozzese, la Sonnambula col soppalco dove ogni sera s’improvvisava un concerto rock, la Cartiera che per anni è stata la sala prove delle giovani band catanesi, la Colleggiata. Molti di questi posti non ci sono più, o, se ci sono, si sono trasformati tanto da non riconoscersi più. L’Ixtlan è diventato una trattoria, la Sonnambula ha chiuso, la Cartiera fa pagare dieci euro per vedere concerti di band che vengono da fuori, la Colleggiata è praticamente una pizzeria. E non si trattava del solo centro storico. Il Taxi Driver, celebrato nel film Mundo Civilizado di Guadagnino, proponeva rassegne rock praticamente di continuo, il Rockfly, il Mirco & Max, e tutta una costellazione di posti indimenticabili nell’hinterland, il Gazy Pub a San Giovanni la Punta, il Metal Hell, il Jack & Dandy a San Gregorio, l’Ostello Pub a Mascalucia, l’inossidabile 15/18, lo Sticky Fingers, e più su fino all’imperituro Big Ben a Pedara.

 

Si suonava di tutto: grunge, psichedelica, metal, rock. Si suonava dappertutto, anche per strada. Si suonava con la voglia di improvvisare, si tirava dentro più gente possibile. Non si aveva paura di parlare di progetti, di viaggi. Uno ti parlava di un viaggio on the road che aveva deciso di fare in Irlanda con la sua chitarra, un altro di un rag che aveva deciso di stampare; una sera ho cominciato a scrivere i versi di un’opera rock ai piedi del Teatro Massimo mentre un mio amico seduto vicino componeva estemporaneamente con una chitarra la musica sui versi.

 

Erano i tempi dell’informatica pionieristica e presto arrivò l’onda della new-economy che impattò la città in pieno. C’erano le BBS amatoriali. L’informatica era concepita come un mezzo di espansione della coscienza, una sperimentazione praticamente illimitata. Eravamo cyberpunk. Nasceva il Freaknet Medialab, mi ricordo ancora qualche riunione fatta nella sala superiore del Nievski che aveva un laboratorio informatico. Cyberparty venivano organizzati a S. G. Galermo e di fronte l’Ambasciatori o dentro il Centro Sociale Auro. Praticamente ogni stanza degli studenti fuorisede d’ingegneria diventava una fucina di cybercultura. Si sperimentava con la musica elettronica. Anche questo aspetto è citato nel film Mundo Civilizado. Mi ricordo ancora Catania Online degli inizi, una ditta new-ecomony che si ingrandì, diventò fiorente e poi scoppiò quando la nuova economia si dissolse come una bolla di sapone. Avevano gli uffici in viale Africa: dentro, il rumore delle macchine si mischiava con l’odore di salsedine del vicino lungomare. Musica, poesia, cyberpunk. I concerti all’Experia, o guardare Waiting for Godot al Piccolo, tutto pareva speciale. La musica suonata al Cortile Platamone. Si scopriva, si riscopriva, ogni angolo della città.

 

Una delle apoteosi di quel periodo fu Sonica del ’96, un festival che oggi praticamente è morto. Suonarono le band della Seattle del sud. Quel concerto fu stupendo, ne fu tratto un cd registrato dal vivo. Splendido, grezzo. Fenians, Quartered Shadows, Silence Sucks, Skew, Camelot. Quel cd suona come la musica vera deve suonare. Suona come Woodstock o come i con-certi dei Floyd all’UFO club di Londra. Suona come suona la vita.

 

Dove sono ora i protagonisti di quel periodo? Sono dispersi, in una lenta diaspora; qualcuno suona o scrive ancora, qualcuno, come nel più perfetto copione alla Big Chill, ha appeso penna o chitarra al chiodo ed è passato a una vita più tranquilla. Qualcuno, come mi disse un chitarrista ubriaco all’ingresso dell’Experia qualche anno fa, “s’ammuccau u ciriveddu”. È il Syd Barrett della Londra Etnea. Qualcuno addirittura è morto.

 

Non vorrei essere melodrammatico, ma ricordare i nomi e le facce di quei protagonisti, di quella gente, anche del me stesso di quegli anni mi provoca sempre una certa nostalgia. Musicisti, agitatori, gente piena di idee di cui citare i nomi non avrebbe senso, perché sconosciuti ai più, forse a quasi tutti. Come bravi soldati semplici sono tornati nell’ombra dopo aver fatto la propria Grande Guerra. Persa o vinta, questo è tutto da vedere.

 

La Catania di oggi è una Catania diversa, di questo ne sono certo. C’è ancora musica, ci sono tanti (forse troppi) locali, e anche tante attività culturali, ma è lo spirito ad essere diverso. È venuto meno quel senso di fiducia collettiva, di ottimismo effervescente che rendeva ebbri solo a scendere in strada.

 

Vale la pena tentare un bilancio?

Quel momento è un momento che in ogni caso ha cambiato la città. Una città che in quegli anni molti hanno giudicato una delle più effervescenti d’Italia, e che sicuramente ha ancora tante carte da giocare. Non voglio tirare le somme, non voglio fare paragoni, e sicuramente ci sono ancora tante facce e tante idee in giro. Noi, quelli dei tempi, anche se ancora appena trentenni, forse abbiamo occhi e orecchie troppo stanchi per vedere queste facce e per sentire queste musiche. Dopo la sbronza è subentrato forte il mal di testa.

 

E dopo ogni rivoluzione viene la restaurazione. Anche la stessa Londra dei club degli anni ’90 oggi è molto cambiata. Il capodanno del 2000 a Londra è passato alla storia per uno dei capodanni più spenti e opachi che la città si ricordi; solo pochi anni prima l’elettronica e la cultura dell’ecstasy avevano reso la capitale britannica ancora una volta la mecca Europea della musica e della sottocultura giovanile.

 

Anche Catania ha tirato i remi in barca. I pub, dopo il momento rivoluzionario (quello che Bianco riassunse in una frase che ricordo più o meno “I pub del centro storico hanno cambiato la città”), sono diventati esercizi economici che debbono far cassetta, il baricentro della musica italiana s’è di nuovo spostato, l’informatica è diventata troppo quotidiana per poter essere ancora considerata romantica. Basta andare in qualunque supermercato per comprare cavetti usb a tanto al chilo. Una volta li costruivamo noi i cavetti per connettere due computer, e trasferire un file di testo dall’uno all’altro era un miracolo. Sono flussi e riflussi, da che mondo è mondo. Forse è ridicolo considerare le cose con nostalgia, ma sono sicuro che non fa male ricordare che questa città solo una manciata di anni è stata percorsa da una fiammata, come se la lava dell’Etna fosse in ebollizione sotto le strade e quelli fossero gli effetti. Musica, incontri, birre, idee, ancora musica a tutto volume.

 

Non fa male ricordarlo perché oggi è già dimenticato. Non fa male ricordarlo perché queste cose non vanno dimenticate. Perché non è giusto che per chi ancora non c’era, per chi c’era e aveva occhi non giusti per guardare, per chi ha semplicemente dimenticato, o per chi trova che in fondo questa città non abbia niente per cui vale la pena essere celebrata a parte del classico arancino, pasta alla norma, Vincenzo Bellini e barocco. Esagero? Sicuramente. Ma come tutti i futuristi sono percorso da un furore iconoclasta per il passato pieno di polvere, e mi piace di più l’effervescenza ebbra d’avvenire.

 

Paragonare Catania anni ’90 a Londra o Parigi, a San Francisco degli anni ’60? Ridicolo. Esagerato. Forse. Quasi sicuramente. Ma allora perché sento queste parole adatte a descrivere quello che è successo in quegli anni?:

Strani ricordi in quella nervosa notte a Las Vegas. Sono passati 5 anni? 6? Sembra una vita. Quel genere di apice che non tornerà mai più. San Francisco, nella metà degli anni ’60, erano un posto speciale e un momento speciale di cui fare parte. Ma nessuna spiegazione, nessuna miscela di parole, musiche, ricordi poteva toccare la consapevolezza di essere stato là, vivo, in quell’angolo di tempo e di mondo, qualunque cosa significasse. C’era follia in ogni direzione, a ogni ora, potevi sprizzare scintille dovunque. C’era una fantastica universale sensazione che qualunque cosa facessimo fosse giusta, che stessimo vincendo, e questo, credo, era il nostro appiglio, quel senso di inevitabile vittoria sulle forze del vecchio e del male, non in senso violento o cattivo, non ne avevamo bisogno. La nostra energia avrebbe semplicemente, prevalso, avevamo tutto lo slancio. Cavalcavamo la cresta di una altissima e meravigliosa onda. E ora, meno di cinque anni dopo, potevi andare su una ripida collina di Las Vegas e guardare a Ovest, e, con il tipo giusto di occhi, potevi quasi vedere il segno dell’acqua alta, quel punto dove l’onda alla fine s’è infranta ed è tornata indietro.” – dal film “Paura e Delirio a Las Vegas”


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