Mama Africa, festival di incontro culturale «Per riscoprire le nostre stesse radici»

«La musica non ha confini, l’arte non ha passaporto». E’ il motto del Meeting Mama Africa, festival culturale nato in Toscana nel 2006 e che per la prima volta, dal 6 al 9 settembre, arriva in Sicilia. Workshop di danza e musica, spettacoli e concerti che hanno come protagonisti il continente africano e lo scambio culturale. Ma che si svolgeranno a Catania, al Camping Jonio alla Riviera dei Ciclopi. Quattro le associazioni organizzatrici dell’evento: Associazione Culturale Momu Mondo di Musica, Arci Catania, Co.P.E. e Youcultures.com. «Per avvicinarsi e imparare a conoscere le tradizioni di un continente che ha generato gran parte di quello che oggi mastichiamo», spiega Carlo Condarelli, curatore del festival insieme all’artista guineano Sourakhatà Dioubate. Dall’esercizio fisico alla musica, radici africane spesso poco conosciute.

Da giovedì a domenica, durante il giorno si alterneranno i diversi corsi di musica e danze tradizionali africane. Lezioni da quattro ore ciascuna, divise per principianti, avanzati e bambini. «Il costo dei workshop servirà a coprire le spese del festival, interamente autofinanziato – spiega il curatore – Ma, se si riuscisse a fare qualcosa in più, questi soldi andrebbero in Africa, per finanziare diversi progetti». Come la pedagogia interculturale, di cui lo stesso Condarelli si occupa con l’associazione Youcultures. «Durante le scorse edizioni del festival, in Toscana, sembrava di essere a Berkeley o al New York Jazz College – racconta – Dove le tecniche e i saperi interni alle tradizioni dell’Africa occidentale vengono studiati a livello didattico. Perché hanno generato molto di quello che oggi diamo per scontato come nostra identità culturale». E che invece non lo è.

«In passato anche grandi filosofi come Hegel sostenevano che il cosiddetto continente nero fosse privo di storia – continua Condarelli – Oggi invece scopriamo che non è vero». E che non è mai troppo tardi per imparare a conoscerlo «Perché un Paese meno lo conosci più è facile derubarlo», mette in guardia il curatore del festival. Un principio che anima tutti e quattro i giorni del Mama Africa ma che, messe da parte filosofia e storia, passa dall’arte. «Magari si inizia con una danza o uno strumento e poi si approfondisce da soli – dice – Soprattutto per quanto riguarda i bambini. Si appassionano agli Stati Uniti mangiando nei fast food? Potrebbero farlo con l’Africa attraverso un djembè».

Oltre ai workshop – ad alcuni dei quali sono ancora aperte le iscrizioni – previsto anche un mercatino equo e solidale, degustazioni di cucina tipica africana e, la sera, spettacoli e concerti. Come l’esibizione teatrale di venerdì, ispirata alla narrazione. Uno spettacolo che fa parte del programma europeo Youth in action, «un lavoro in itinere che coinvolge Italia, Inghilterra e Finlandia con focus sull’alterità». Gli altri noi. «Da un punto di vista soggettivo, cioè tutte le varie persone che convivono in noi – spiega Condarelli – e da quello culturale». Un confronto a cui la Sicilia si presta per natura, «essendo il punto medio tra Oslo e Dakar».

Ad accompagnare i partecipanti, diversi artisti africani: da Sourakhatà Dioubate, co-curatore del festival e ambasciatore della cultura africana in Italia, a Lancei Dioubate, suonatore di djembè noto a livello internazionale. Passando per la coreografa e danzatrice del Balletto Nazionale della Guinea Tanti Syllà e Jali Diabate poeta e compositore senegalese, virtuoso di kora. Nella serata finale anche il gruppo siciliano Ipercussonici, scelti proprio per la sperimentazione musicale dell’incontro tra la cultura siciliana e quella africana.

[Foto di Meeting Mama Africa]


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Quattro giorni di corsi di danza e musica, spettacoli e concerti. Una rassegna culturale nata in Toscana nel 2006 e che per la prima volta arriva in Sicilia, a Catania, da giovedì a domenica. «In passato anche grandi filosofi sostenevano che il cosiddetto continente nero fosse privo di storia – dice Carlo Condarelli, curatore – Oggi invece scopriamo che non è vero». E che quelle tradizioni «hanno generato molto di quello che oggi crediamo sia la nostra identità culturale»

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