Indagato nell’ambito dell’operazione Black cat che nel maggio scorso ha colpito i mandamenti della parte orientale dell’hinterland palermitano, Giuseppe Vitanza è stato sottoposto da ieri alla misura degli arresti domiciliari. Il suo ruolo sarebbe stato quello di ingraziarsi il comandante della stazione locale e carpire informazioni
L’ex carabiniere vicino al presunto boss di Cerda «Le informazioni me le sono prese grazie a lui»
«Se hai i coglioni sotto, quello che deve comandare qua devi essere tu, no lui dalla caserma!». È un consiglio spassionato quello che Stefano Contino, il presunto capo della famiglia mafiosa di Cerda, rivolge a Giuseppe Vitanza, ex appuntato dell’Arma dei carabinieri in pensione. Per tutti, lì a Cerda, è Zu Peppino e anche se il suo congedo risale al 1983, continua a frequentare gli uffici della stazione locale, dove ogni tanto passa a trovare il maresciallo Giovanni Rubino.
I rapporti tra l’ex carabiniere e il presunto boss sono stati ricostruiti tramite alcune intercettazioni effettuate dai militari di Termini Imerese. È il 2013 e Vitanza ancora non sa che il maresciallo lo asseconda solo per non insospettirlo troppo. Il suo ruolo all’interno della famiglia mafiosa cerdese non è ritenuto di rilievo e non gli vale le manette. Per lui, da ieri, a scattare è invece la misura degli arresti domiciliari per istigazione alla corruzione aggravata dal metodo mafioso. Tuttavia, a suo modo, è uno dei protagonisti più interessanti emersi dall’operazione Black cat.
Non avrebbe avuto un ruolo decisivo né sanguinario, ma, stando alle indagini, avrebbe potuto portare a dei vantaggi non indifferenti: il suo compito sarebbe stato quello di ingraziarsi u sceriffu, è così che i membri della cosca chiamano il maresciallo Rubino. Per riuscirci l’ex carabiniere gli avrebbe portato in dono delle regalie, per le quali avrebbe poi sottolineato come il mittente fosse quello stesso Stefano Contino oggi rinchiuso nel carcere di Palmi, in provincia di Reggio Calabria. E così, imbeccato dal presunto boss in persona, Vitanza avrebbe consegnato nell’ufficio del maresciallo prima un sacchetto pieno di mandorle, poi in occasione delle festività pasquali mezzo capretto e un fustino di vino di Favara. È il marzo 2013. A dicembre avrebbe parlato addirittura con la moglie del maresciallo e anche a lei avrebbe consegnato del vino. Vitanza, secondo i carabinieri, sperava forse così di riuscire nell’intento e di carpire tutte le informazioni utili dell’attività investigativa che si stava svolgendo in quel periodo in paese.
«Mi devi portare tutti i connotati», gli dice ridendo Contino. È sicuro della riuscita dell’impresa. Farsi passare per una persona perbene, un pensionato qualsiasi grazie ai regali e ai racconti ripuliti sulla sua persona riferiti al maresciallo. «Mi può pedinare pure notte e giorno», continua a dire spavaldo il presunto capo della famiglia mafiosa cerdese. Secondo le indagini, le intenzioni dei due sarebbero state quelle di raggirare il maresciallo Rubino, lasciandogli intendere che le vicende giudiziarie che in passato avevano coinvolto il presunto capo mandamento erano solo «tragedie per scaricare i legni» messe in atto dalla famiglia dei Biondolillo di Termini Imerese, che volevano il suo male: «Sempre loro sono, le cose sempre loro le fanno», dice ancora Contino intercettato, scrollandosi di dosso le responsabilità del passato.
«Gliel’ha detto bello chiaro», dice ancora il presunto boss a Gandolfo Interbartolo (tra i dieci colpiti ieri dalla misura cautelare in carcere), raccontandogli uno dei tanti colloqui tra Vitanza e il maresciallo Rubino: «Minchia gli danno confidenza – si vanta sempre Contino – Tutte le informazioni me le sono prese con lui». «Io quello che gli dovevo dire ho detto – rassicura dal canto suo Vitanza – “Stiamo attenti a non disturbare” ho detto, e che sei una gran brava persona». I presunti tentativi del carabiniere in pensione, però, non sono andati a buon fine, concludendosi con l’arresto di uno e i domiciliari dell’altro.