L’Egitto? Un pantano politico-sociale

“Le strade sono invase da migliaia di manifestanti che lanciano pietre, intonano slogan antigovernativi e affrontano manganelli, gas lacrimogeni e pallottole vere”. Accade in Egitto. Ma non ora, bensì nell’aprile del 2008 e accade non a piazza Tarhir, al Cairo, ma a Mahallah Al-Kubra, importante centro industriale sede di una delle più grandi industrie del Paese. E il sito internet che riporta questa notizia (http://weekly.ahram.org.eg), da almeno sei anni pubblica una specie di bollettino degli scioperi e delle manifestazioni antigovernative che nel Paese dei Faraoni si ripetono con frequenza e con violenza.
Sono così serviti quanti credono che la “Primavera Araba” sia una estemporanea “rivoluzione” nata in quattro e quattr’otto sull’onda delle proteste tunisine, di facebook (quanti arabi lo usano?) o di Al Jazeera. Le radici di queste rivolte egiziane sono quindi non recentissime e quasi sempre, quasi tutte, sono state soffocate dai militari con arresti di massa, corti marziali e processi sommari con inesistenti garanzie civili. Esse nascono, prima di tutto, da un progressivo, incessante, drammatico impoverimento della popolazione che si ritrova praticamente con una distribuzione del reddito assurda: una concentrazione di ricchezza favolosa in una percentuale minima di popolazione e per il resto il nulla o quasi. Tanto per dire: tra il 2005 e il 2008 i principali alimenti della dieta egiziana, pane e pollo, crescono il primo del 30% e il secondo del 146% a fronte di salari che si abbassano senza sosta e che arrivano, al massimo, per operai specializzati, intorno a 150 euro al mese.
Queste condizioni economiche unite ad una situazione politica carica di tensioni ormai da almeno due decenni non sono rimaste senza conseguenze: Hosni Mubarak, da trent’anni “rais” incontrastato del Paese, nel febbraio scorso sotto una pressione crescente della piazza rassegna le dimissioni. Eppure, appena un anno prima, Obama lo aveva omaggiato per il suo “storico” discorso al mondo arabo, scegliendo proprio l’Egitto, proprio Il Cairo.
Una scelta non casuale, non solo per gli strettisimi rapporti economici e politici tra Usa e Repubblica Araba di Egitto, ma anche perché l’Egitto non è la Tunisia o la Mauritania: ha quasi 80 milioni di abitanti, una fortissima minoranza cristiana (copti) discriminata e una posizione geografica (a partire dal canale di Suez) che definire strategica per gli equilibri mediorientali è limitativo. E’ quello che si dice, in gergo geopolitico, un Paese a forte impatto internazionale.
Crisi economica di vecchia data e malcontento sociale dunque. E dire che l’Egitto, con l’’avvento al potere degli “ufficiali liberi” capeggiati da Nasser nel 1952 (l’uomo che sfidò Francia e Gran Bretagna nazionalizzando il Canale di Suez), aveva creato una vera e propria dottrina politica per un “nuovo mondo arabo”, il nasserismo, cui si erano ispirati decine di leader arabi e che aveva quali punti cardine la completa indipendenza dalle ex potenze coloniali, una forma di socialismo islamico (pianificazione moderata, nazionalizzazione dei settori strategici dell’industria) e un laicismo costituzionalizzato benché rispettoso delle tradizioni islamiche (proibiti, ad esempio, i partiti confessionali).
Ma si sa, di buone idee sono lastricate le vie dell’inferno. E così da premesse e promesse progressive e democratiche, in Egitto, e non solo, si è passati gradualmente, ma con decisione, a sistemi autocratici che, con la scusa della stabilità politica e della lotta al fondamentalismo, sono diventate vere e proprie macchine di censura e di arbitrio.
Già con Nasser la lotta contro gli estremismi, comunista e islamico, diventa senza quartiere e senza regole. Sadat, che gli succede nel 1970, allenta la morsa sui secondi ma non sui primi, farà la pace con Israele e darà il via ad un programma di riprivatizzazione industriale (che durerà fino ai nostri giorni e che una moltitudine di osservatori considera essere alla base del progressivo impoverimento della popolazione).

Nasser e Sadat

Mubarak, al potere dal 1981, prosegue sul solco del suo predecessore: completo allineamento in politica internazionale alle posizioni americane (l’Egitto è stato per decenni il secondo Paese dell’area per finanziamenti americani: circa 1.3 miliardi di dollari l’anno), privatizzazioni, pugno di ferro con le opposizioni, specie quelle islamiste.
Al dicembre del 2011 questo è il risultato: un Paese che continua ad essere scosso dalle fondamenta da continue manifestazioni di piazza (con centinaia di morti e un numero incalcolabile di feriti), un governo militare totalmente delegittimato ma non disposto a farsi da parte, una effervescenza politica confusionaria dalla quale emerge con forza l’unica opposizione politica sempre schiacciata ma mai annichilita che ha un nome che per molti è sinonimo di terrorismo: Fratellanza musulmana.
La vittoria alle elezioni per il Parlamento costituente che si svolgono in questi settimane (e che si concluderanno solo l’11 gennaio prossimo grazie ad un sistema complicato di voto per aree regionali) sembra quasi scontata per i Fratelli musulmani. Ma davvero si tratta di una formazione estremista e votata alla violenza come fin troppo spesso alcuni media occidentali ce l’hanno rappresentata?
A ben vedere, pare di no. La Fratellanza, che ha una storia ormai quasi centenaria, ha da lungo tempo abbandonato forme di lotta violenta, ha cercato di avere buoni rapporti con la minoranza cristiana e non si richiama a valori di “guerre sante” contro i miscredenti. Sembra avere assunto, anzi, negli ultimi anni una connotazione politica moderata, sia in campo economico (il che vuol dire vicinanza alle posizioni occidentali) che in quello della politica internazionale. Il che lascia presumere che, dal punto di vista dell’Occidente, una loro vittoria non dovrebbe prevedere particolari misure di ritorsione.
Altro discorso vale per i Salafiti. In Italia questo nome ha cominciato a circolare la scorsa primavera quando Vittorio Arrigoni, un giovane pacifista italiano, venne sequestrato e ucciso proprio da un gruppo di salafiti a Gaza in Palestina. E questo già dà la cifra della questione anche se sarebbe profondamente sbagliato identificare l’intera organizzazione con i gruppi fondamentalisti più estremi che pure gravitano in questa area.
I Salafiti in questa prima tornata elettorare hanno ottenuto un risultato da molti inaspettato posizionandosi quale secondo partito con un 20 percento di consensi. E condividono poco con i Fratelli musulmani politicamente parlando. E’ una corrente radicale e per nulla propensa al compromesso che professa un ritorno alle “origini” dell’Islam e la legge coranica prevalente sulla costituzione repubblicana. L’affermazione tanto significativa di questo gruppo è anche il frutto del rifiuto di larga parte della popolazione per un regime “laico” che è universalmente considerato corrotto e violento.
Il problema è, al momento, per gli egiziani specificamente interno. Messo fuori gioco Mubarak (portato in tribunale con le flebo appese al braccio) non si è riusciti a creare una struttura politica di transizione (come in Tunisia) in grado di portare il Paese fuori dal pantano politico-sociale attraverso passaggi graduali e pacifici. L’esercito che ha costituito una giunta di governo, distintasi per avere continuato le repressioni di massa, è, agli occhi di molti, totalmente compromesso col precedente regime. E questo spiega il perché di mesi di ritardo nel convocare elezioni costituenti e le mai sopite manifestazioni di piazza. Adesso la vittoria, ancora parziale ma estremamente indicativa, delle forze politiche che si ancorano a posizioni religiose aggiunge ulteriori elementi di instabilità.
Ma, a ben rifletterci, il problema di tanta instabilità non è solo interno all’Egitto, se è vero come è vero che ben 117 degli sfortunati migranti del barcone naufragato presso le coste di Brindisi nei giorni scorsi erano egiziani.
Come sempre, quello che accade a sud delle coste italiane non è mai senza conseguenze per le coste italiane.


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