Le solite bugie sul Sud Italia

Quando il pregiudizio fa comodo, debellarlo è difficile. E’ il caso, ad esempio, di quello che disegna il Mezzogiorno d’Italia come il regno incontrastato dello spreco, dove malgrado le ingenti risorse provenienti da Roma, si fa poco e male.

Anche  Sud Italia,  però, si sanno fare i conti.  E i numeri smentiscono i luoghi comuni.  Lo dimostra la Svimez, l’Associzione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno, fondata da grandi meridionalisti, tra i quali spicca il nome di Pasquale Saraceno ( il quale, come si ricorderà, negli anni 50 si batteva affinché anche il Mezzogiorno d’Italia fosse dotato dello stesso tessuto infrastrutturale del Nord).
“L’Ecclesiaste ci ha insegnato che c’è “un tempo per tacere e un tempo per parlare. Dopo tanti silenzi sul Mezzogiorno, sui suoi ritardi, sui fattori della sua crisi e sulla problematicità del suo futuro, a noi della Svimez questa sembra un’occasione per non tacere” si legge in una relazione presentata al Senato dall’Associazione. Che spiega bene come l’arretramento del Sud sia stato determinato da un progressivo disinteresse dello Stato centrale verso la questione meridionale: “Se nel 1861, il Pil tra le due aree era simile, cioè pari a 100 per entrambi, dopo 150 anni, nel 2009, i redditi del Mezzogiorno risultavano pari solo al 59% del Centro-Nord”. E ancora: “Mentre il tasso di occupazione meridionale nel 1951 era pari all’81% del Centro-Nord, quasi 50 anni dopo, era fermo al 68,9%”. Come mai? Secondo la Svimez “la definitiva fine – nel 1993 – del positivo “intervento straordinario” per il Sud avviatosi nel 1950 (durante la cosiddetta ‘Età dell’Oro’, il Meridione mostra un’importante dinamicità nella performance economica) che era entrato dai primi anni ’70 in un ventennio di incertezze, a causa della crisi petrolifera, ma anche per le mutate strategie di politica economica nazionale tradottesi nella Legge 675 – nordista – sulla “ristrutturazione e riconversione industriale”, segnò a fine secolo una caduta profonda nei ritmi di crescita della necessaria accumulazione produttiva e dell’occupazione nell’area meridionale”.
Vero è che sotto la spinta di Carlo Azeglio Ciampi si ebbe certo – da parte del Governo e del DPS – il coraggio politico di parlare con i “numeri” e con i valori di “riserve” economico-politiche: il 45% al Sud delle totali spese nazionali in conto capitale, ordinarie e straordinarie; il 30% di quelle solo ordinarie; l’85% di localizzazione al Sud delle risorse aggiuntive per le aree meno sviluppate d’Italia. Ma numeri e riserve hanno finito presto col diventare vaghi proclami e mancate promesse, di cui si è dimostrata nel tempo l’incapacità del rispetto, politico e tecnico, da parte di chi – governando – doveva darsene carico.
“Dal 2002 ad oggi le regioni del Sud sono sempre cresciute meno di quelle del resto del Paese: nel periodo 2001-2008 l’incremento annuo del prodotto del Mezzogiorno (0,6%) è risultato pari a poco più della metà di quello del Centro-Nord (1,0%)”.
Il mancato successo della politica di sviluppo trova spiegazione in primo luogo in una dimensione della spesa pubblica in conto capitale complessiva effettuata nel Mezzogiorno, assai inferiore a quanto programmato. “L’analisi dei dati relativi alla spesa nel Mezzogiorno servono a smentire l’idea, purtroppo assai diffusa anche nella pubblicistica, di un Sud inondato da un fiume di pubbliche risorse; ma sta anche ad indicare come la spesa in conto capitale aggiuntiva (comunitaria e nazionale) in tale area sia valsa negli ultimi anni solo a compensare il deficit della spesa ordinaria”.
I dati elaborati dal DPS, Dipartimento per le Politiche di Sviluppo e Coesione, mostrano che la quota di spesa pubblica in conto capitale complessivamente effettuata nelle regioni meridionali è passata, con un progressivo declino, dal 40,4% del 2001 al 35,3% nel 2007; nel successivo biennio 2008-2009 dovrebbe essersi assestata al 34,8%. Oggi siamo a meno del 30%. Si tratta di valori non solo ben lontani dal 45% del totale nazionale originariamente fissato in fase di programmazione, ma che, come accade ormai da qualche anno, non eguagliano neppure il “peso naturale” del Mezzogiorno, che può valutarsi nel 38% circa, media tra la sua quota di popolazione (35%) e la quota del suo territorio (40,8%). Tale deludente risultato è stato conseguito con una “spesa aggiuntiva” di circa 12 miliardi di euro 2007 all’anno”.
La quota di spesa ordinaria destinata alla formazione di capitale nel Mezzogiorno è stata pari nel 2007 ad appena il 21,4% del totale nazionale, inferiore di circa 16 punti al citato peso naturale dell’area, e di quasi 9 punti rispetto all’obiettivo del 30%, a tal titolo indicato nei documenti governativi.
In materia di spesa infrastrutturale, le cose non vanno meglio: “Le Ferrovie dello Stato destinano al Sud appena il 18% della loro spesa, Poste ed ENEL circa il 30%”.
E ancora le risorse del Fas:
“Il FAS, secondo quanto stabilito dalla legge istitutiva, avrebbe dovuto essere ripartito esclusivamente con apposite delibere CIPE per investimenti pubblici e per incentivi con finalità di riequilibrio economico e sociale, sulla base del criterio generale di destinazione territoriale delle risorse.
Nel corso del 2008 e del 2009 invece il legislatore, anticipando l’opera di ripartizione del CIPE, è intervenuto con rilevanti utilizzi della dotazione FAS per impieghi sovente senza rapporti con le finalità proprie del Fondo, che erano e che avrebbero dovuto restare finalità – meridionaliste – di “sviluppo” territoriale, verso la “coesione” nazionale. Il volume delle risorse FAS che è stato così mobilitato prima per il finanziamento di interventi di carattere emergenziale (situazione dei rifiuti in Campania, risanamento dei bilanci dei Comuni di Roma e Catania, ed altro) e successivamente per misure anticrisi, è stato oggettivamente ingente. I tagli e le preallocazioni operate sono stati pari a circa 19 miliardi di euro (risultanti per 13,7 miliardi dai tagli indicati nella delibera CIPE n. 112/2008, e per i restanti 5,3 miliardi da preallocazioni previste da leggi successive). A ciò si sono però aggiunti numerosi interventi che hanno finito per dirottare risorse del FAS verso indirizzi dispersivi rispetto alla sua missione originaria.
L’intera quota nazionale del FAS 2007-2013 è stata collocata in tre fondi, il primo destinato a opere infrastrutturali (e quindi coerente con la mission originaria), e gli altri due a politiche prevalentemente anticongiunturali: uno è stato utilizzato per il finanziamento degli ammortizzatori, e l’altro – accentrato presso la Presidenza del Consiglio – per far fronte in primo luogo all’emergenza in Abruzzo. L’illusione che la crisi potesse colpire meno l’economia meridionale, poi smentita dai fatti, ha alimentato la colpevole illusione di un Mezzogiorno “protetto”, e quindi ha finito per giustificare arretramenti sul terreno delle politiche di sviluppo. La quota delle risorse nazionali del FAS complessivamente dirottata verso altri indirizzi, secondo stime del CNEL, raggiunge circa 26 miliardi.


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