Non aveva usato mezzi termini un autorevole giornale inglese che, con autoreferenzialità assolutamente britannica, aveva tirato fuori l’abusato luogo comune degli spaghetti accompagnato da un eloquente «Welcome to Britaly» per indicare lo stato di salute della politica e l’impantanamento in cui si era venuto a trovare il governo conservatore di Liz Russ e per esprimere […]
Le sfide che aspettano la presidente Meloni, prima donna e prima esponente di destra
Non aveva usato mezzi termini un autorevole giornale inglese che, con autoreferenzialità assolutamente britannica, aveva tirato fuori l’abusato luogo comune degli spaghetti accompagnato da un eloquente «Welcome to Britaly» per indicare lo stato di salute della politica e l’impantanamento in cui si era venuto a trovare il governo conservatore di Liz Russ e per esprimere il disagio nel dovere constatare che, tutto sommato, la situazione di oltremanica non era poi tanto diversa da quella dell’Italia. E intanto Russ – a poche settimane dall’insediamento al numero 10 di Dowining street al posto del defenestrato Boris Johnson – gettava la spugna, con le conseguenze che non è difficile immaginare.
La risposta non si è fatta attendere e, a meno di un mese dalle elezioni (del 25 settembre) ma soprattutto dopo due giorni di consultazioni, l’Italia ha un nuovo Governo. Un iter velocissimo. Nel colloquio con la delegazione del centrodestra, infatti, sono bastati sette minuti (fatto mai registrato sin qui) al presidente della Repubblica Sergio Mattarella per prendere atto dell’esistenza in Parlamento di una maggioranza tale da assicurare la governabilità e per non avere dubbi sul conferimento dell’incarico alla leader di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni che ha accettato rinunciando alla tradizionale riserva e presentando subito la lista dei ministri. Un record, se si considera che, dopo la falsa partenza della legislatura con il presidente del Senato eletto senza i voti di Forza Italia (terza forza dello schieramento di centrodestra) e con il sostegno determinante di parte dell’opposizione, non c’era nulla di scontato.
È inutile dire che quella di ieri è stata una giornata storica non tanto per la celerità quanto per il fatto che Giorgia Meloni è la prima donna a occupare la carica di presidente del Consiglio non solo nella storia repubblicana, ma addirittura dalla proclamazione del Regno d’Italia. Ma non è solo questo: la premier – come accaduto con Massimo D’Alema e Giorgio Napolitano, primi post-comunisti a rivestire rispettivamente la carica di presidente del Consiglio nel 1998 e quella di capo della Stato nel 2006 – è la prima esponente di destra, nonché leader di un partito che contiene nel suo simbolo segni inconfondibili e assai indicativi dei suoi legami, a presiedere un governo della Repubblica.
Cosa che non deve stupire per tutta una serie di motivi: primo perché il voto fa parte di quel solenne rito che si chiama democrazia; secondo perché quest’ultima si sostanzia attraverso il confronto costante tra la volontà di chi governa a mantenere il potere e l’aspirazione di chi non governa a prenderne il posto; terzo, e non meno importante, perché il responso del 25 settembre è stato talmente chiaro da non ammettere dubbi. Dire che la formazione del governo sia stata tutta in discesa sarebbe una esagerazione. Meloni ha dovuto lavorare intensamente per sciogliere i nodi che inevitabilmente si presentano durante la gestazione di un nuovo esecutivo e in questo, bisogna riconoscerlo, ha mostrato carattere e – perché no? – grinta. Il suo compito, dopo il giuramento, non sarà dei più facili. I problemi non mancano. Bisognerà innanzitutto superare le diffidenze che hanno accompagnato la sua ascesa sin qui.
Se sembrano non esserci dubbi sulla collocazione atlantica dell’Italia, qualche riserva rimane sul posizionamento all’interno dell’Unione europea sul quale all’interno dello schieramento di centrodestra non pare ci sia unanimità assoluta. Nello stesso tempo, non si può non prendere atto delle dichiarazioni di condanna in occasione dell’anniversario del rastrellamento del ghetto di Roma nel 1943, alle quali si spera vengano aggiunte ulteriori conferme. Quindi bisognerà affrontare immediatamente la sessione di bilancio, tenendo conto dell’aumento dei costi dell’energia, dell’inflazione tornata a due cifre, degli annosi problemi del lavoro che c’è e non c’è, della disoccupazione, dei giovani divisi tra chi sceglie di emigrare e chi non studia né cerca lavoro. Per non parlare della guerra che, oltre a tenere tutti con il fiato sospeso, minaccia gravi ripercussioni sull’economia.
Un aiutino in tal senso giungerà al nuovo esecutivo da Mario Draghi che, oltre a lasciare in eredità un tesoretto di circa 9 miliardi ricavati dall’incremento delle entrate fiscali in seguito all’aumento dell’inflazione, ha concluso la sua esperienza di governo tenendo a Bruxelles un ruolo decisivo nel determinare l’accordo europeo sull’energia cui dovrebbe seguire un calo del prezzo del gas. Il cammino non sarà facile, specie in presenza di un’opposizione varia, che annuncia ora di volere essere ora netta ora responsabile, ora non preconcetta ora non ideologica, ora costruttiva ora inflessibile, ora chissà che.
Dopo le aspre contrapposizioni della campagna elettorale, è arrivato il turno dei fatti. A questi non può e non vuole sottrarsi la premier alla quale, data la delicatezza della situazione e la gravosità dell’impegno, non si può non augurare buon lavoro. C’è anche chi – e con questo chiudiamo – non esclude l’eventualità che la destra italiana possa essere traghettata da posizioni conservatrici a posizioni liberali. Attualmente sembrerebbe un paradosso, ma è indubbio che ciò, se si realizzasse, aprirebbe la strada a un vero sistema dell’alternanza dopo tentativi mascherati e non riusciti. Anche in questo caso, sarebbe opportuno non correre troppo e rimanere con i piedi per terra. Ci penseranno il tempo e la storia a dire qualcosa di definitivo.