La Provincia come luogo dell’anina

“MENTRE SONO STATI TAGLIATI I TRENI A LUNGA PERCORRENZA, L’IMMAGINE DELLA LOCOMOTIVA, ORMAI FATISCENTE, CON IL SUO CARICO DI PENDOLARI, è LA METAFORA DELLA NOSTRA ECONOMIA. Nell’Italia dei pochi ricconi e dei moltissimi poveri, c’è anche la realtà di Patti, nobile decaduta, anch’essa all’ultimo treno”.
Così titola all’inizio dell’anno l’unico giornale pattese, quindicinale peraltro, d’ispirazione cattolica. Passeggiando per Patti, godendo dello spettacolo naturale dei grandi pini mediterranei, dello sfondo di isole che come avamposti della memoria stanno allineate sul confine del mare, si può incontrare qualche cartello di disappunto degli studenti del liceo che ne mostra tutta la delusione per un incontro disatteso con le istituzioni rappresentate dal sindaco, e le solite poche persone che gironzolano attorno ai bar del centro; gli emigrati, che sono la maggior parte, non tornano per Natale, ma soltanto per le vacanze estive.
I discorsi da bar poi, sono sempre gli stessi, spesso sono adulti orgogliosi che i propri figli siano andati a Roma, a Firenze, a Milano, quasi un trofeo, uno status raggiunto, e giustificano il fatto che non vengano giù per le vacanze di natale perché chi hannu a fari? Ca’ un c’è nenti.
Passeggiando per Patti lentamente, adeguandosi al ritmo della non certo frenetica cittadina, si può anche incappare in qualche ritaglio di giornale appeso nei posti più imprevedibili che titola: “Andiamo a zappare! Non è un’offesa, ma una necessità”: espressione rustica e d’impatto, si ha tutto il tempo di rifletterci mentre ci si avvia verso il bar per un caffè. E’ dovuta succedere la tragedia a Saponara e il disastro di Barcellona Pozzo di Gotto (dimenticando peraltro tragedie e disastri degli anni precedenti), per comprendere che l’agricoltura quasi non esiste più. Proprio nell’anno in cui è stato presentato, a livello regionale, il nuovo piano dell’agricoltura, proprio quando ci si è attivati anche a livello provinciale, l’agricoltura ha dato il suo responso: non c’è regimentazione, non ci sono colture, non c’è economia; i terreni sono abbandonati, i proprietari li puliscono solo per il timore degli incendi e ora si è messo di traverso pure il legislatore : ha ordinato di non toccare nulla, così gli incendi aumenteranno.
Mentre in tutto il resto d’Italia il mercato contadino è una realtà, qui no: certo, ci sono stati i Comuni che hanno vinto il Bando, tranne Patti che, durante l’amministrazione precedente, non ha presentato neanche la domanda perdendo una seria opportunità. Qualcuno non aveva forse detto che bisogna pensare alla provincia come il posto dove rinascerà, con l’agricoltura, il cibo di domani? Rimane il dato sconfortante.
Eppure Patti risulta essere la cittadina più importante della provincia di Messina: sede vescovile con giurisdizione su 45 comuni, da Olivieri a Tusa; ospita il Tribunale civile e penale, una sede staccata dell’università di Messina, Facoltà di Giurisprudenza e una della facoltà di Magistero (Scienze della formazione), l’Istituto di formazione teologica per i laici, sezione della Pontificia università della Santa Croce e il Seminario vescovile; quindi l’Agenzia delle Entrate; la Delegazione dell’ispettorato regionale dell’agricoltura; l’INPS; l’INPDAP; Il Genio Civile; il Servizio Turistico Regionale; vari istituti scolastici medi superiori e numerosi altri uffici pubblici; un attrezzato e moderno ospedale con reparti di alta specializzazione.
Passeggiando per Patti fino alla Stazione ferroviaria o fino alla Villa Romana o fino a piazza Marconi e inoltrandosi su per scalinate medievali, fino all’Antica Pescheria (che ormai pescheria non è più, ma luogo di mostre artigianali), una cosa si nota: non si incontra un solo barbone per strada, e questo qualcosa vuol dire, almeno la Chiesa funziona: c’è un centro d’ascolto, una mensa per chi non ha una tavola, un bazar per chi ha bisogno di vestiti. Che sia perché il vescovato non debba avere critiche o per qualche altro opportunistico motivo non fa la differenza, non c’è un barbone per strada, e questo rimane un dato confortante.
Certo, il fatto che non ci siano più treni diretti, cioè che abbiano abolito i treni a lunga percorrenza penalizza moltissimo soprattutto la provincia, e non poco quella di Patti: se si vuole andare a Palermo, per esempio, si deve prima trovare il biglietto. Alla stazione è tutto fuori uso in maniera permanente e non c’è essere umano in servizio, solo una macchina sputa biglietti che però non li sputa nemmeno più e bisogna andare in giro a cercarli; la settimana scorsa ci avevano indicato una tabaccheria, ma anche lì il titolare ne era sprovvisto, ci ha detto che la colpa è della stazione di Palermo che non li manda. Bene abbiamo detto, e adesso come partiremo? Ci ha allargato le braccia, poi ci ha suggerito di andare nell’unica agenzia di viaggi che, ovviamente, ha orari da agenzia (mica puoi andare quando vuoi), e paghi un supplemento, l’agenzia fa il suo lavoro.
Non parliamo se la direzione che si vuole prendere è quella verso “il continente”: si deve prima arrivare a Messina, scendere alla stazione, traghettare, arrivare fino a Villa San Giovanni (non sappiamo come, forse in taxi visti i bagagli che probabilmente uno ha al seguito?), prendere il primo treno possibile per Roma e se vuoi continuare sono affari tuoi, aspetta il prossimo, se sei fortunato magari trovi una coincidenza.
La bellezza della provincia è che le cose non sono mai come te le aspetti. La si immagina come luogo sereno e operoso invece ha gli stessi problemi delle metropoli, con minore visibilità. Ma questo è sufficiente per decidere di abolirla, addirittura “sopprimerla”? Forse è soltanto poco conosciuta, comunque maltrattata, usata per sminuire (“è un provinciale..”), considerata piccolo centro dell’Italia minore, che minore non è.
Le comunità locali hanno tradizioni secolari. Fondate nel 1861 con l’Unità d’Italia, oggi le province italiane sono 110, per un totale di 8.092 comuni. In vent’anni, 201 di questi sono stati sciolti d’ufficio perché la mafia vi spadroneggiava, ma questo è un piccolo incidente di percorso, come tanti in provincia dove questi “incidenti” diventano più evidenti rispetto alle città. 1.076 Comuni aderiscono a reti tematiche. Hanno storie millenarie, santi protettori, maschere teatrali, conti e marchesi, vescovi, oltre 4000 specialità enogastronomiche e artigianali, 153 tra DOP e IGP, 336 tra DOC e DOCG e 119 IGT, una parte di Paese in cui operano quasi 5.000 imprese che producono prodotti tipici locali e sono presenti quasi 30.000 aziende agricole biologiche.
In provincia nascono talenti ed esistono innumerevoli biodiversità, c’è una grande vicinanza agli stabilimenti termali, alle campagne, e spesso un ritrovarsi in contesti di forte pregio culturale e storico. Moltissimi protagonisti della nostra storia sono nati e cresciuti lontano dai grandi centri, come i finomeni e i diginerati di Camilleri che fanno della similitudine una lingua universale, il vero ponte sullo stretto come ha scritto di recente Marino Niola. La provincia è anche il mondo perduto, gli antichi valori, gli antichi sapori, la nostalgia, la casa dei nonni, il mondo fascinoso che scrittori e registi hanno raccontato come fossero usi e costumi di mondi lontani e quanto mai auspicabili, sinonimo di vita sana e a misura d’uomo.
Queste “isole nella corrente” (che rischia di spazzarle via) sono in realtà il nocciolo duro dell’antropologia nazionale fatta più di popolo che di cittadinanza, di comunità più che di società. Giulio Andreotti credeva di tenere a bada il piccolo paese di Corleone, ma non è andata così. Dc e PCI pensavano di essersi spartiti la torta del Nord, ma non avevano tenuto conto del provinciale Bossi che tra gli italiani di provincia è stato il più imprevedibile e di successo e ha convinto molti che il potere di Roma ha cancellato con la violenza la grande storia di cui erano eredi. Curiosamente provinciale, però, è il futuro della politica nazionale, vedi il provincialissimo agrigentino Angelino Alfano, segretario nazionale del PDL; il provinciale Nichi Vendola, in corsa per conquistare la leadership dell’opposizione, “singolare impasto di Cristo, Pasolini, Di Vittorio delle province sudorientali” come sostiene Enrico Deaglio, e se ne potrebbero citare veramente molti.
Leonardo Sciascia sosteneva che non c’è nulla di più provinciale dell’accusa di provincialismo, che si può essere provinciali a Roma, a Parigi, a Londra, a Bruxelles, come ad Agrigento o Bolzano e potrebbe pure essere vero se non fosse per le difficoltà che la provincia “vera” ha, rispetto al “provincialismo”delle grandi città. Diceva pure che le persone più colte e più informate che conobbe, le conobbe in provincia, dall’aristocratico Lucio Piccolo di Capo d’Orlando, sempre vissuto sulle sue terre, a questo o quel professore di liceo di Ragusa o di Lentini. Forse doveva la sua formazione alla provincia: pare che nel 1940 abbia letto una traduzione di James Joyce, trovata tra i volumi dell’istituto di cultura fascista a Caltanissetta: una scoperta che la cultura italiana fece poi molti anni dopo la fine della guerra. “Provincialismo” –scriveva – “non è il vivere in provincia e il fare della provincia oggetto di rappresentazione: provincialismo è il serrarsi nella provincia con appagamento, con soddisfazione, considerandone inamovibili e impareggiabili i modi di essere, le regole, i comportamenti; e senza mai guardare a quel che fuori della provincia accade, senza riceverne avvertimenti, stimoli, provocazioni al pensare feconde, alla visione della realtà fermentanti”.
Dicono che le Province siano un antipatico ricordo delle Prefetture della mal digerita Italia post unitaria. Dicono che il costo di 16 miliardi di euro l’anno sia sostanzialmente sprecato. Naturalmente è tutto vero. Ed è tanto più vero quanto più – decidendo di mantenerle – non si chiedesse alle Regioni di attuare pienamente e concretamente le normative e le direttive che consentirebbero la delega di molti settori chiave dell’economia e dello sviluppo sociale e culturale.
Chiunque spendesse i propri denari per acquistare una Ferrari e poi la tenesse in garage, prima o poi sarebbe tentato di venderla. Noi siamo convinti, invece, che il livello territoriale provinciale sia quello più congeniale alla realtà italiana, anche se il localismo dei Comuni è esasperato: mostra tutto il proprio limite per cronica assenza di risorse, per motivi campanilistici, per la mostrata incapacità di guardare al territorio con ottica vasta, sottratta all’egoismo di bottega, totalmente incapace di consentire la necessaria programmazione e pianificazione soprattutto in materia di infrastrutture. La dimensione regionale è lontana dalla realtà locale ed è assolutamente inutile ricordare quanti sprechi si annidino nella sua propria burocrazia: basta la semplice lettura dei quotidiani per misurare come i 16 miliardi di euro necessari alle Province siano meno di quanto necessario soltanto a mantenere certe ambasciate che le Regioni hanno aperto a Bruxelles o in qualche altra parte del mondo.
Per non dire poi che l’organizzazione dello Stato, da sempre, (150 anni), fa perno sul livello provinciale per la Giustizia, le Forze dell’Ordine, le Università, le Camere di Commercio e molto altro ancora. E poi: quali sono i brand territoriali più affermati in Italia e all’estero? Fatta eccezione per la Toscana (ma si potrebbero anche ammettere Sicilia e Sardegna per il loro essere isole), si parla di Langhe, di Salento, di Dolomiti, di Chianti, di Cinque Terre, di Costiera Amalfitana, di Conero, di Gargano, di Carnia, di Oltrepò Pavese, di Pollino… Non ci sarebbe bisogno di aggiungere altro: i marchi d’area più noti (e quindi più commercializzati) sfuggono ai confini amministrativi per collegarsi indissolubilmente all’identità territoriale: contesti territoriali omogenei, fortemente identificabili in quanto tali, a tutti gli effetti “sistemi” che affrontano le sfide di un serrato confronto con la globalizzazione preservando nel contempo la dimensione locale delle società, delle culture, delle economie e delle tradizioni.
Probabilmente, l’unica condizione per non perdere le straordinarie opportunità territoriali risiede nel diminuire le conflittualità, nell’abbandonare sterili campanilismi. Un impegno che preserverebbe i tanti luoghi dell’eccellenza italiana, il patrimonio storico e culturale, il paesaggio, la creatività, le produzioni tipiche e la buona cucina, operando – ciascuno per il proprio ruolo – per un maggiore livello di coesione sociale e di qualità della vita. L’Italia sta attraversando una crisi economica strutturale e contingente trovando uno straordinario elemento di forza nelle proprie comunità locali, nelle forti identità che distinguono proprio le province, nella caparbietà dei ceti produttivi di non abbandonare la propria terra, nemmeno quando inerpicata su impervi tratti montuosi o lasciata sola ad affrontare insuperabili problemi endemici; i nuovi assestamenti di una possibile architettura istituzionale basata sull’ identità territoriale potrebbero risultare molto solidi, molto competitivi e persino molto solidali.
Passeggiando per Patti fino alla marina, percorrendo il lungo viale di palme che costeggia la spiaggia si possono incontrare pescatori che con tenacia tirano le barche a riva, sistemano le poche cassette di pescato e aspettano che qualcuno si avvicini per comprare mentre al largo ancora qualcuno getta le reti, come se dovesse poi tirar su non sarde ed ombrine, ma sogni. Si potranno forse abolire le province, certamente non la provincia, che non è un semplice spazio geografico e tantomeno un’unità amministrativa dai confini variabili, ma un luogo dell’anima.

 

 

 

 

 


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