La Carovana antimafie «antenna del Paese» Una risorsa unica retta dalle spalle di tutti

Cos’è una Carovana antimafie? È quasi un mistero, un’alchimia impalpabile, che riesce a legare migliaia di persone da un capo all’altro dell’Italia e anche del mondo. Storie di violenza, oppressione e rassegnazione, si mescolano all’entusiasmo, alla voglia di rimettersi costantemente in gioco con una disperata voglia di fare che muove i primi passi dai momenti più bui. La Carovana antimafie nasce in un momento ben preciso, nel 1994. Due anni dopo le morti di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino che avevano scosso l’intero Paese, la coscienza della società civile sembra affievolirsi. Nel salotto di via D’Amelio, dall’incontro dell’allora responsabile regionale dell’Arci Alfio Foti e di Rita Borsellino, nasce l’idea di «andare incontro alla gente». Un’idea impensabile prima di allora per la sorella del giudice, che si dice estremamente timida. Ma a sopraffare qualsiasi altra ragione è il bisogno di «mettere nuovamente la questione al centro», spiega Foti.

Alessandro Cobianchi, referente regionale di Libera in Puglia, è coordinatore dell’iniziativa dal 2008 e definisce la carovana come «frutto di contaminazione». Quasi fosse un organismo vivente, si è trasformata. «È un’iniziativa che nasce in un momento diverso da quello di oggi – spiega – e ha fatto da antenna di quanto accade nel Paese». Nel corso delle sedici edizioni finora raggiunte, «ha risentito e beneficato delle trasformazioni». Dopo l’ondata emotiva degli anni Novanta molto è cambiato, anche nel rapporto tra le mafie e chi vi si oppone. «Il nemico è diventato più astratto, difficile da individuare. È una mafia che inizia a corrodere la società», prosegue Cobianchi. Fortunatamente la Carovana «è riuscita a leggere la trasformazione del Paese». Per questo motivo si è interessata anche all’aspetto economico, per segnalare il rischio che la criminalità organizzata s’inserisce là dove il bisogno annebbia le coscienze.

Mariagiovanna Italia

«Tutto è nato con una domanda: noi, come società civile, cosa possiamo fare?». Mariagiovanna Italia è presidente dell’Arci Catania. Carovanista in molte edizioni passate, dal 2003 si occupa dell’organizzazione della tappa locale e cura anche a livello nazionale l’iniziativa. «L’idea era di prendere un furgone, girare e fermarsi nelle piazze e far vedere che eravamo contro le mafie. In una delle prime edizioni, portavamo con noi un lenzuolo lunghissimo per far lasciare un segno, una firma, ai bambini incontrati ad ogni tappa». A un certo punto la Carovana si è allargata, «è diventata così ampia che c’è stato un momento in cui si è persa anche l’idea del viaggio unico – racconta Italia – Ma abbiamo voluto ripristinare il senso originario, la valenza del viaggio che collega, unisce».

La Carovana è formata da diversi soggetti: «I partner danno un contributo per quello che sono. Libera cura l’aspetto della memoria. Arci si concentra sull’integrazione, mentre Avviso pubblico e CgilCisl e Uil sui temi legati al lavoro». Unico soggetto straniero, dallo scorso anno, è la francese Ligue de l’Enseignement che ha come finalità l’educazione popolare. Eppure, nonostante i carovanieri siano tutti volontari provenienti da ogni parte d’Italia e non solo (quest’anno è stata guidata in Sicilia da una 25enne catalana, Helena), ci sono dei costi da sostenere. «Ogni struttura nazionale mette una quota», spiega la rappresentante catanese. Il bilancio di quest’anno si aggira al di sotto dei ventimila euro, da impiegare nell’affitto dei due furgoni che formano la Carovana, nella benzina e nelle altre spese di trasporto. Un budget che negli anni si è assottigliato. Ad occuparsi di accogliere i viaggiatori sono i comitati locali: pensioni, alberghi, un divano. Nessuno standard da seguire è imposto, né chi si mette in gioco in questo lungo viaggio chiede più di quanto venga offerto. «L’iniziativa vive della forza volontaria di tutte le realtà. È così grossa, unica nel panorama nazionale, che si sostiene sulle spalle di tutti. Ma si trasforma in una risorsa – continua Mariagiovanna Italia – perché mette assieme spinte a realizzare delle cose. Alla fine, la gente aspetta il passaggio della carovana oppure freme per salirci su».

Non si tratta di un percorso istituzionale, rigido. Ligi alla flessibilità che la caratterizza, chi sale sulla Carovana è consapevole che si tratta di un itinerario in continua evoluzione e pronto ad accogliere la voce di chi vuole raccontare qualcosa. «L’anno scorso, a Lamezia Terme, i cittadini hanno chiesto supporto per evitare che il Tribunale chiudesse. Essere sempre più, in tutti i luoghi e in tutte le sedi, uno strumento di denuncia – afferma Mariagiovanna Italia – In questa maniera è come se idealmente tutte le tappe si facessero carico delle altre vertenze». Anche l’arte è utile a trasmettere il messaggio antimafie. «Concerti, spettacoli teatrali ed eventi non sono fatti per attirare più persone o a scopo mediatico. L’obiettivo – precisa – è chiedere ad artisti di impegnarsi nella lotta alla mafia, tutti attraverso i propri linguaggi. Ad esempio, qualche edizione fa seguiva la carovana un cantastorie che nelle varie tappe raccontava le storie che incontravamo».

Ci sono però alcuni punti fondamentali, delle regole fisse, che la Carovana deve rispettare: «Deve riuscire a raggiungere la gente, quindi va fatta quanto più possibile all’aperto». E deve far parlare, contrariare, provocare una reazione. Come quella dell’anno scorso a San Cristoforo, a Catania, quando gli abitanti del quartiere, infastiditi, reagivano stizziti al passaggio dei furgoni. E poi deve andare anche dove la percezione del pericolo di infiltrazione non c’è: «La memoria e la testimonianza hanno senso se la racconti a chi non la conosce», afferma Alessandro Cobianchi. Per questo «è più difficile farla passare in Brianza piuttosto che in Sicilia», puntualizza Italia. Le mafie sono davvero un problema potenzialmente di tutti. Uno degli esempi che spesso porta il coordinatore nazionale è quello di un omicidio a Bari Vecchia. «Chiudi le finestre, non è cosa nostra», dice la madre di Michele Fazio, 16 anni, al marito sentendo degli spari in strada. Non sapendo che a morire sotto i colpi di alcuni killer era stato il figlio.

 

«Corruzione, sistema clientelare, omicidi… sono tutti gradi della stessa malattia – dice

Mariagiovanna Italia – Se la mafia ha un progetto preciso, l’antimafia non si può proporre in maniera sfilacciata. Per questo ha senso che migliaia di persone, per alcuni mesi, facciano un progetto mirato». Le scuole sono i punti di riferimento e i luoghi da curare con particolare attenzione. «Spesso le iniziative fatte dagli studenti durante il nostro passaggio non sono estemporanee – racconta la donna – La carovana diventa insensata in quei territorio in cui non è espressione di percorsi che nascono prima e continuano dopo».

Per «renderla meno retorica e più centrata sulle vertenze, da quest’anno per la prima volta è stato firmato un protocollo d’intesa tra i vari partner». Il documento non ha inventato niente di nuovo, assicurano gli organizzatori, ha messo nero su bianco quello che erano gli ideali e rafforzato la volontà di portarli avanti. «Rimettere pancia e testa assieme», chiarisce la presidente dell’Arci catanese. Nel corso degli anni «si era smarrita l’attenzione alla metodologia». Lo scopo è riadattare a questo tempo le energie che rischiano di disperdersi: «Ci sono più ragioni per lottare. Bisogna capire quali sono le battaglie e unirle, ciascuno nelle proprie forme».

Quest’anno il tema centrale è economico. Quindi le storie raccolte hanno a che fare sì con la mafia, ma anche con la mancanza di lavoro, l’infiltrazione delle cosche e le vertenzecome quelle raccontate a Catania dai dipendenti Aligrup, Riela e Almaviva. «Ancora in alcuni territori si spinge poco verso la questione. A volte accade in certi luoghi del nord Italia, dove la mafia viene vissuta come un cosa degli altri», precisa la responsabile etnea. «La questione vertenziale c’è quasi sempre stata, ma negli ultimi anni si sente sempre più», di pari passo con la crescita del disagio sociale in piena crisi. Il mondo dell’associazionismo tiene a cuore la problematica, anche perché «quando la mafia non spara, sta in silenzio, è molto più preoccupante».


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