Arriva nelle sale «Le cose in te nascoste», film di Vito Vinci sceneggiato insieme a Davide Pappalardo, uno degli animatori del Medialab. Una sceneggiatura limpida ed essenziale, pur nel disordine interiore che mira a trasmettere
Irrequieto, indipendente e un po catanese
È un’irrequietezza profonda, quella che traspare dagli ottanta minuti de “Le cose in te nascoste”, piccolo film indipendente di Vito Vinci, che torna a lavorare sul grande schermo due anni dopo l’uscita di “Sandra Kristoff”, miglior film esordiente al Festival del Cinema Europeo 2006.
Le speranze di redenzione sono poche, in una Roma che il regista disegna grigia e cinica, fredda e sporca, affollato luogo di solitudini che si incrociano, come quelle di Fabrizio e Chiara. Operaio precario lui (la stamperia dove lavora “vomita” copie in serie di un quotidiano senza nome, simbolo effimero di alienazione), commessa frustrata lei; sposato e in attesa di un figlio dalla moglie perennemente depressa uno, nervosa divoratrice di amanti occasionali l’altra, si incontreranno una sera e non si dimenticheranno più.
C’è una sceneggiatura interessante (che in origine s’intitolava “Fiammante” ed è arrivata finalista al premio Solinas 2001), fatta di quadri sovrapposti, non lineare ma limpida ed essenziale, pur nel disordine interiore che mira a trasmettere, il cui co-autore (l’altro è il regista), Davide Pappalardo, è di casa all’Università di Catania (ha seguito e diretto con passione alcuni laboratori del Medialab, oltre ad aver pubblicato una raccolta di racconti e versi) e che ha il merito di essere riuscito a fare il salto dal cinema immaginato a quello compiuto, dalla pagina scritta al “luci, motore, azione!”. C’è una notevole squadra di non-protagonisti, da Elena Bouryka, moglie tradita intensa che suscita compassione autentica, al collega di lavoro Franco Trevisi, una voce fuori campo (quella del regista) che senza chiamare le cose per nome ci lascia intuire come si concluderà la vicenda infondendo nello spettatore lo stato d’animo adatto. C’è una città il cui tempo e spazio sono un letto scomodo su cui rigirarsi insieme ai protagonisti, la cui inquietudine è sottolineata dalle inquadrature poco stabili, dagli zoom bruschi, dal montaggio frenetico.
La scelta della croata Lea Mornar per il ruolo della protagonista fa sì che il suo italiano strascicato e a tratti imperfetto contribuisca a costruire l’idea che Chiara sia una disadattata. Ma d’altra parte mina la credibilità del personaggio, una ragazza italianissima che ha perfino studiato. Non c’è flashback che riesca a spiegare come una plurilaureata figlia dell’alta borghesia si sia trasformata in una donna fragile e violenta, come riesca ad attirare a sé un uomo se possibile ancora più fragile, a stregarlo a tal punto da coinvolgerlo in un’impresa criminale grossolana che sfocerà in tragedia. Se è possibile riuscire a comprendere il disagio del protagonista maschile, un Luigi Iacuzio cupo e agitato, non riusciamo invece ad affezionarci a lei. Lungi dal soffrire del suo dolore, ci scopriamo persino incapaci di concepire il sentimento di rivalsa di un personaggio che non ha saputo raccontarci di sé.
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