Il segno della mafia nelle città del Sud

L’imminenza del voto amministrativo ripropone l’influenza della mafia e delle organizzazioni criminali nel processo politico e nella selezione delle elite dirigenti. Ma quando s’inizia a parlare di mafia e politica? Dai ricordi brevi e guardando dentro la memoria antica sembra che la mafia abbia sempre condizionato la politica. Eppure, esamininando i testi politici o letterari dell’epoca la risposta è diversa.
Nel 1875 Pasquale Villari nella sua lettera sulla mafia, non accenna a nessun ruolo di questo genere. Federico De Roberto ne I Vicerè, ricostruisce la saga degli Uzeda Francalanza, dei loro successi politici e del transito di un’antichissima famiglia principesca dal vecchio al nuovo ordine, senza nessun cenno al ruolo della mafia in politica, se non un fugace riferimento a uomini in armi di cui Consalvo Uzeda, elezioni politiche del 1882, si serve per proteggere le sedi dei suoi comitati elettorali.
Nel 1893 il deputato Raffaele Palizzolo, nel tentativo di ostacolare l’indagine a suo carico, ordina l’uccisione dell’uomo che minaccia il suo potere: Emanuele Notarbartolo. Fatti ben raccontati da Sebastiano Vassalli nel romanzo Il Cigno. Nel 1909 Salvemini accusò Giolitti di reclutare i deputati meridionali mettendo al loro servizio, nei propri collegi elettorali, la mafia e le questure.
Ma il salto di qualità, il passaggio che consente alla mafia di entrare in politica è più recente e si lega indissolubilmente al mutamento del corpo elettorale. Nell’Italia nel 1860 votavano 500.000 elettori, il 2% dei cittadini italiani, nel 1882 la riforma Zanardelli eleva a due milioni gli aventi diritto, nel 1913 si giunge al suffragio universale maschile con alcune limitazioni che verranno del tutto abolite dalla riforma del 1919. Poi subentra il fascismo e in Italia non si voterà più fino al 1946, anno in cui il suffragio universale è esteso alle donne.
Come si è evoluto il rapporto mafia politica? Uno dei livelli più alti della prima fase è proprio l’assassinio Notarbartolo, ma qui la mafia è manovalanza. In una regione dove lo Stato ha sempre diviso il monopolio della forza con il brigantaggio e le bande armate, la mafia con il suo controllo territoriale, la signoria esercitata su vaste zone dell’entroterra e della periferia urbana si trova in mano, con l’introduzione del suffragio universale maschile e femminile, un’arma formidabile. Adesso non attende soltanto a funzioni punitive o intimidatorie commissionategli da imprenditori, possidenti o padrini politici. Adesso controlla direttamente la materia prima del potere politico: il consenso elettorale.
Prima comincia a dare sostegno elettorale pretendendo favori in cambio, poi capisce che può mandare uomini propri nelle istituzioni ed eleggere sindaci, deputati, consiglieri e presidenti. Cambia il rapporto: non più utilizzati ma utilizzatori della politica e delle sue rappresentanze. E inizia la seconda fase, violenta come la prima ma più pervasiva, penetrante e devastante per le istituzioni, la tenuta democratica, l’efficacia di governo, la ‘trasparenza’ amministrativa.
Se qualcuno si è chiesto come mai la qualità urbanistica delle città meridionali compie un gigantesco salto indietro rispetto al primo cinquantennio di vita unitaria e perché mai le grandi città meridionali del primo Novecento non hanno nulla da invidiare alle consorelle del Centro Nord, mentre nell’ultimo cinquantennio compiono un rovinoso capitombolo culturale amministrativo e sociale che le deturpa e le devasta, ebbene, una delle ragioni di ciò risiede nel profondo mutamento della qualità degli eletti.
Ricordava Leonardo Sciascia in un articolo scritto per L’Ora nel 1965, guardando sconsolato come era ridotta quella città, costretta ad approvvigionarsi d’acqua con secchi, pentole e quartare che: “Più di mezzo secolo addietro, però, Caltanissetta aveva acqua sufficiente ai bisogni della popolazione. Ed era amministrata da persone di estrazione sociale più vicina ai gattopardi che agli sciacalli, per usare una terminologia lampedusiana. Come, del resto, ogni altro paese della Sicilia”.
E’ qui, dunque, lo spartiacque, il punto di cesura. La democrazia partecipata, il suffragio universale non preceduto o accompagnato dalla bonifica della palude sociale ha fornito lo strumento alla criminalità per compiere il salto dentro le istituzioni. Nel Nord infestato dai briganti lo Stato riprese con rapidità il monopolio della forza. Nel Sud infettato dai briganti, ma soprattutto dalle consorterie mafiose e camorriste, abituato non al primato della legge, ma a legislazioni concorrenti e particolari, le cose andarono diversamente. E se i Borboni appaltavano ai mafiosi l’ordine pubblico, i Piemontesi, con leggi sbagliate e atteggiamenti da conquistatori, scolpirono nella memoria di un popolo il profilo di uno Stato rapace, distante e ingiusto. Ma allora quei ceti non votavano e il “potere“ mafioso si metteva al servizio dei signori senza scrupoli che intendevano regolare privatamente i conti con i loro nemici.
Le città del Sud portano sulle loro ‘facce’ il ricordo dello splendore di quegli anni e lo strazio di quelli successivi. Sempre Sciascia ricorda che “quando le amministrazioni erano in mano dei ‘galantuomini’ si operava di più e meglio di ora che sono in mano di persone in prevalenza provenienti dai ceti popolari. E’ una verità paradossale ed amara. E so bene che i ‘galantuomini’ avevano tanti costituzionali difetti, e non pochi vizi: ma avevano anche la virtù di tenere al decoro dei paesi che amministravano, e spesso ci rimettevano del proprio. Una famiglia di piccola nobiltà ‘regnicola’, amministrando per circa mezzo secolo il mio paese, vi si rovinò quasi totalmente: ma lasciò il paese con strade lastricate e selciate, con scuole, uffici comunali, teatro, macello, illuminazioni pubblica, fognature, acquedotti”.
Il più noto dei devastatori nostrani si chiamava Vito Ciancimino, a lungo assessore ai lavori Pubblici del Comune di Palermo. In quegli anni nacque una dinastia scellerata i cui epigoni appestano ancora le amministrazioni meridionali, saccheggiandole. Quanti Ciancimino sono entrati nelle istituzioni, corrodendole, senza che le cronache giudiziarie registrassero la loro presenza?
Villari scriveva, nel 1875: “Noi dobbiamo dunque assalire il nemico da due lati: punire e reprimere prontamente, esemplarmente; ma, nello stesso tempo, prevenire. In che modo? Bisogna curare la malattia nella sua sorgente prima. Il Governo deve avere il coraggio di presentarsi come colui che vuol redimere gli oppressi dal terrore e dalla tirannide che pesa su di essi”.
Se non sottrarremo a mafia e camorra il controllo del territorio, se non saranno varati progetti per contrastare l’egemonia della subcultura mafiosa e dei suoi modelli violenti, se non troverà attuazione l’introduzione del reddito di cittadinanza, assisteremo impotenti al passare dei decenni, con piccoli apprezzabili mutamenti che non scalfiranno le radici del male che imprigiona il Sud dell’Italia e si protende ad avvinghiarlo tutto.

 

 

 

 

 


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