Non avrebbe accolto alcune richieste di Giuseppe Laudani e per vendicarsene, adesso, quest'ultimo lo starebbe accusando di avergli fatto da tramite con l'esterno. È questa la linea difensiva di Salvatore Mineo, noto penalista del Paternese, accusato dalla procura di Catania di concorso esterno alla mafia
I Vicerè, interrogato il presunto avvocato-postino «Accusato per una ritorsione del pentito Laudani»
Interrogatorio di garanzia per l’avvocato Salvatore Mineo, noto penalista del Paternese, arrestato nel corso dell’operazione I Vicerè che ha fatto scattare le manette per 109 persone ritenute vicine od organiche al clan Laudani, i mussi di ficurinia. Mineo, ex vicesindaco di Santa Maria di Licodia dal maggio 2012 al novembre 2013, è accusato di concorso esterno in associazione mafiosa e di rivelazione di segreto d’ufficio. Detenuto nel carcere di massima sicurezza di Bicocca, il legale ha risposto alle domande del giudice per le indagini preliminari Alessandro Ricciardolo e dalle sostitute procuratrici Lina Trovato e Antonella Barrera.
«Il mio assistito ha chiarito la sua posizione, non avvalendosi della facoltà di non rispondere», dice Salvatore Caruso, difensore – assieme all’avvocato Giuseppe Gullotta – del collega indagato Mineo. Il penalista licodiese è accusato dal collaboratore di giustizia Giuseppe Laudani, ex cliente dello stesso Mineo nel 2008, di avergli fatto da postino. In base alle dichiarazioni del pentito, quest’ultimo scriveva «lettere, neanche pizzini, proprio lettere» che l’avvocato Mineo avrebbe consegnato al boss Enzo Morabito. «A questa accusa il mio assistito ha risposto in modo esauriente, individuando il motivo dell’accusa mossa nei suoi confronti nel desiderio di ritorsione del collaborante». Secondo il suo difensore, Mineo si sarebbe rifiutato di soddisfare alcune richieste di Giuseppe Laudani che sarebbero andate oltre i limiti di quanto consentito dal rapporto tra un avvocato e il suo assistito.
Per quanto riguarda i messaggi scritti dal Laudani e portati fuori da Mineo, Caruso precisa che il pentito «quando gli è stato chiesto cosa avesse scritto, avrebbe detto di non ricordare ed è strano. Se fosse lui l’autore di questi messaggi avrebbe dovuto ricordare quello che inviava all’esterno tramite l’avvocato». A carico di Mineo ci sono anche i racconti della moglie dell’affiliato Claudio Magrì (arrestato anch’egli nell’operazione I Vicerè) che lo indica come la persona che avrebbe passato un documento riservato al marito. Documento che si trovava nella pendrive di un maresciallo dei carabinieri, scomparsa dal palazzo di giustizia di Catania e il cui contenuto è stato poi ritrovato nei computer di alcuni esponenti del clan. In quelli dello stesso Magrì e di Salvatore Rapisarda, arrestati nel dicembre 2010 nel corso dell’operazione Baraonda, eseguita dai carabinieri della compagnia di Paternò.
«Sul piano oggettivo, le indagini – continua l’avvocato Caruso – non hanno accertato la dinamica dello smarrimento della penna usb in cui erano racchiuse queste informazioni. Tutto rimane avvolto nell’oscurità e nel mistero. Collegare l’avvocato Mineo alla pendrive che fu smarrita è azzardato: potrebbe essere stato chiunque». E a sostegno di questa ipotesi porta un elemento: «Nel processo, la prova di questa pendrive manca già nel marzo 2010. Mentre il fatto che viene addebitato all’avvocato Mineo riguarda il dicembre dello stesso anno. In mezzo ci sono parecchi mesi in cui questa memoria esterna poteva essere già in possesso di altre persone». Per tutti questi motivi Salvatore Caruso ha chiesto al giudice la revoca dell’ordinanza di custodia cautelare.