Guerra preventiva, un concetto folle

Abbiamo incontrato Luciano Scalettari, giornalista di Famiglia Cristiana, a Catania per un incontro su “Le guerre dimenticate”. Esperto di questioni africane nonché di temi sociali nazionali ed internazionali, ecco cosa ci ha detto.

Partiamo dalle “Guerre dimenticate”, che è il tema dell’incontro. Quante sono e dove sono?
Io seguo soprattutto l’Africa per Famiglia Cristiana e posso dire che lì, in questo momento, sono catalogate come guerre 10 conflitti. Ci sono poi 4 situazioni di instabilità in paesi che sono usciti da guerre civili o che hanno delle aree di crisi all’interno. In tutto il mondo, se non ricordo male, dovrebbero essere 35.
Ovviamente le due parti del pianeta che hanno più situazioni di instabilità e conflitto sono l’ Africa e l’ Asia.

Perché sono “dimenticate”?
Questa è una risposta non facile: sono dimenticate perché alla gente non interessa o perché i mezzi di informazione che sono anche nelle mani anche di forze economiche e politiche, hanno altri interessi rispetto a quelle zone del pianeta e li dimenticano? È vero che l’ Italia non ha molta attenzione verso le situazioni lontane non avendo una storia coloniale importante. In Francia, in Inghilterra c’è più interesse. Ma questo spiega solo in parte il fatto. Anche perché da un sondaggio molto recente risulta che oltre il 70% dell’ opinione pubblica vorrebbe saperne di più di questi conflitti. Questo significa che il disinteresse è dei mezzi di informazione, non della gente comune.

La maggior parte dei conflitti sembrano avere una matrice etnica o religiosa e non si parla dell’ importanza strategica ed economica di queste guerre e dei territori in cui si combattono. Qual è la verità?
Io ritorno all’Africa. Per quanto riguarda questa zone del pianeta ci sono alcune cose da dire. La prima è che è molto raro che un conflitto sia solo etnico o religioso, anche quanto possono apparire così. In realtà c’è molto spesso un gioco di sostegno di questi conflitti che viene da ragioni politiche economiche. Il caso del Ruanda ad esempio, 10 anni fa, da noi è stato letto come un fatto etnico, un esplosione improvvisa di violenza barbarica, quasi primitiva. In realtà, quando abbiamo capito un po’ di più abbiamo capito che c’era un’ organizzazione scientifica, occidentale che strumentalizza qualcosa che in africa indubbiamente c’è, cioè l’appartenenza etnica. Invece, a mio avviso c’è un secondo aspetto che è molto più rilevante: se guardiamo la mappa dei conflitti  e le aree in cui ci sono le più importanti materie prime dell’ Africa, i paesi combaciano quasi tutti. Pensare che sia una coincidenza è un po’ difficile.

Dopo l’11-09 gli USA hanno inventato la formula  “guerra preventiva”, giustificando così gli attacchi contro Afghanistan e Iraq. Secondo questa prospettiva ci sono guerre inevitabili. Lei è d’accordo  o crede che ci si debba sempre schierare su posizioni pacifiste?
Mah… quando ci fu la seconda guerra mondiale e c’era Hitler in espansione essere pacifisti non era molto facile…ed inoltre dobbiamo tener conto che il pacifismo è sempre un processo legato alle evoluzioni storiche di un dato momento: cioè chi è pacifista, non è pacifista in assoluto ma cerca di utilizzare il massimo di non violenza possibile, per cui con Hitler il tasso di non violenza era basso, era quasi una legittima difesa. Detto questo, diciamo che le guerre di questi decenni credo fossero sempre evitabili. Due anni fa mi trovai ad intervistare Baricco proprio all’indomani dell’ Afghanistan e lui disse: “adesso a noi pacifisti ci chiedono: tu come rispondi al terrorista che abbatte le torri gemelle? Come fai a fare il pacifista in queste situazioni?”. Il fatto è che ci mettono sempre di fronte ad un fatto compito, quando il pacifista ha poco da rispondere. Il problema è che la politica della non violenza agisce da prima ed in un altro modo: di fronte alla povertà, agli squilibri del mondo arabo islamico avrebbe dovuto agire in un altro modo, evitando forse l’11-09 e tutto quello che avvenuto dopo. “Guerra preventiva” è un concetto folle, che si sta rivelando folle. 

Lei quindi non ha appoggiato la politica usa, che tra l’altro ha agito senza il consenso dell’ONU…                                                      Gli usa hanno fatto questa scelta di esautorare, quasi ridicolizzare, le Nazioni Unite, di rendere quasi inutili alcune istituzioni internazionali. Ma di fatto hanno creato le condizioni per uno scontro di civiltà, stanno portando tutti noi ad una situazione sempre più difficile. E lo vediamo nella vita quotidiana: a Milano, per esempio, si ha paura di andare in metropolitana… Inoltre il concetto di porsi come gendarmi del mondo, come modello di democrazia da esportare ed imporre è fallimentare. È palese che hanno ripetuto lo stesso errore del Vietnam.

Qual è il ruolo dei mezzi di informazione in queste situazioni? C’è un limite a quello che è possibile mostrare e quello che deve essere nascosto (le torture e le decapitazioni ad esempio)?
È il limite che passa tra la notizia e l’insistere quasi morboso sul fatto, che forse può attirare il lettore ma non è informazione. È necessario mostrare le foto del torturato ma non è necessario mostrarne il dettaglio. Quanti sono andati a vedere il filmato del decapitato in internet? Questa non è informazione. Bisogna trasmettere notizie: la foto è un documento, quando è autentica naturalmente, e deve essere mostrata.

Ma non c’è un doppio uso dei media? Da un lato aggressori e terroristi li sfruttano per mostrare al mondo le loro azioni e ricercare consensi, dall’ altro gli stessi media si amplificano alcune notizie e ne nascondono altre.
Ci sono delle situazioni molto diverse. In Italia abbiamo una situazione “drogata” con un’informazione che, evidentemente, in questo momento ha dei grossi problemi. Anche l’ UE ci accusa di avere un’informazione distorta per i motivi che sappiamo, il Presidente del Consiglio  che è proprietario di televisioni private e che ha il controllo politico della televisione pubblica. Da qui la situazione alterata.
A livello internazionale devo dire che tra i giornalisti della cnn che accettano di vivere tra i soldati e che quindi sono patrioti per forza, e un giornalista che fa informazione sul campo, accettando tutti i rischi del caso, preferisco il secondo.


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