Giornalismo: qualche mito da sfatare

«Il giornalismo è una professione molto sopravvalutata e se andate all’origine di questo mestiere, vi accorgerete che in realtà è un piccolo lavoro. Anche se utile». Inizia così l’incontro “Sistema dei Media e responsabilità individuale del giornalista” organizzato dalla Scuola Superiore di Catania, che vede sotto i riflettori Corradino Mineo, direttore di Rainews24. Un incontro veloce e scattante, con tempi quasi televisivi, con poco spazio per annoiarsi.
 
Mineo smonta il mito del giornalista che si è creato nell’immaginario comune: «Una volta il giornalista si formava consumando la suola delle scarpe, oggi non è più così. Se all’inizio diventa mediatore, spesso rimane intrappolato poi in quei meccanismi che lo hanno generato. Prima si era a diretto contatto con le notizie, questo non accade più nei tempi odierni». Un mito di cui fa parte anche l’immagine del piccolo giornalista che insiste a raccontare le cose come le vede, e che si trova in una situazione complessa «perché tocca interessi che non accettano di essere toccati. È schiacciato dal fatto che la grandissima parte dell’informazione è su altro: è un’informazione che non viene più dal basso. Nel caso dei “piccoli” giornalisti che hanno raccontato il Sud, queste cose hanno cominciato a coincidere dopo la loro morte».
 
Con la televisione questo mestiere ha cambiato completamente i suoi connotati. Tutto ciò che viene letto durante un telegiornale altro non è che la prima pagina dei giornali in edicola. «La globalizzazione inizia con la notizia e la pubblicità. I telegiornali scelgono – escludendo quelli locali – le notizie nazionali e internazionali perché attraggono un maggior numero di utenti. E’ un messaggio dall’alto che arriva al pubblico con determinate conseguenze», afferma il direttore di Rainews24. Nasce così una nuova figura: se dal “giornalista – giornalista” (come lo definisce lo stesso Mineo, prendendo spunto dal film Fortapàsc di Marco Risi) si passa al “giornalista – mediatore”, quello televisivo è un “giornalista – conduttore”. Questo tipo di giornalista deve saper infondere fiducia e la gente quando lo vede sullo schermo, deve poter dire “Io gli credo”.
 
Secondo Mineo, le fonti dell’informazione sono sempre più ricche, ma il lavoro che sta alla base di un giornale è sempre più fatto a tavolino. La stessa situazione si ha anche nei telegiornali: «In un canale all-news si lavora sulle fonti e molte di queste informazioni sono false. Il problema è che il giornalista sta lì e deve inseguire un vasto flusso di notizie. Purtroppo – continua Mineo – nella nostra società la notizia arriva già in qualche misura commentata e l’unico modo per poterla vedere realmente è andare a vedere di persona». E’ ovvio che sotto un tale flusso di informazioni è inevitabile dare notizie false, ma il direttore di Rainews24 afferma che non si deve avere paura di rettificare, anche se si perde la propria autorevolezza. Il mestiere deve essere basato su tre grandi concetti: il dubbio, la ricerca e il rispetto delle parti. «Se tu non sai se quella cosa è vera, devi dire che non lo sai, se hai una fonte devi dire qual è la tua fonte; se tu hai una fonte contrastante con la tua prima fonte lo devi dire. Perdi l’autorevolezza? Non me ne frega niente: questo è il giornalismo del domani». Le critiche al giornalismo italiano non sono poche. «In Italia i telegiornali sono messa cantata, i grandi giornali non fanno autocritica anche quando sono colti con il topo in bocca».
 
Mineo continua a paragonare il giornalismo americano e quello italiano per tutto l’incontro, affermando che nel Bel Paese questo mestiere è ancora troppo statico. Da noi è impensabile avere una figura come quella del “producer” accanto al giornalista che conduce un telegiornale e fare in modo che la notizia sia costantemente in fieri. «Il giornalismo nasce in Italia con la politica. Dopo il fascismo, quando fai questo mestiere, e non soltanto su base locale, immediatamente diventi giornalista “per”: giornalista comunista, democristiano, clericale, anticlericale e così via; ti schieri. Questo tipo di giornalismo, però, è saltato nel momento in cui ha vacillato la politica (più o meno negli anni ’70). Ed è diventato sempre più autoreferenziale».
 
Il giornalista politico cambia la sua forma e questo cambiamento è determinato anche dal fatto che la politica italiana si esprime per segnali. «Bisogna arrivare per primi al segnale e non a ciò che viene detto. Se cerchi di interrompere questo flusso, rompi molte uova, c’è molta gente che si arrabbia». Corradino Mineo si definisce molto pessimista riguardo al panorama giornalistico nazionale, in risposta alla domanda di una ragazza che gli chiede se la passione e la meritocrazia possano aiutare in questa professione. «Quando si ha la passione, si riesce sempre in ciò che si fa. In Italia, però, c’è anche il problema della casta dei giornalisti, attraverso l’Ordine. E poi la difesa del posto di lavoro crea delle follie. Ad esempio, io sono direttore a Rainews24 da quasi tre anni ma non posso prendere nemmeno per quindici giorni il più bravo giornalista di 25/30 anni che ci sia sul mercato perché la Rai ha fatto un accordo con il sindacato dei giornalisti per cui si possono prendere solo i precari Rai, e quindi non puoi prendere un giornalista che non è già nelle liste dei precari. Di conseguenza se venisse da me un giornalista tesserato all’Ordine, io gli direi che non lo posso assumere perché non è un precario Rai e per essere un precario Rai devi già lavorare dentro l’azienda. Non è che nei giornali la situazione sia migliore…».
 
In un mondo in continua evoluzione, i new media hanno permesso che le notizie vengano fuori anche grazie al citizen journalism. Alla domanda se, in caso di errore, il blogger abbia maggiori o pari responsabilità a quella del giornalista, Corradino Mineo risponde che vi è una sostanziale differenza: «Il giornalista è un mediatore. Il blogger è un’altra cosa, non fa giornalismo. Le fonti sono spesso istituzionali, vengono dall’alto ma è sempre necessario verificarle. Quando ci sono fonti alternative, che vanno contro la tendenza generale dell’opinione pubblica, succede che è il pubblico stesso a non volerle sentire. Se non cambia la mentalità, se non capisco che quelle immagini riprese da un telefonino (poco importa se riprese da un giornalista o da mio zio in carriola) sono importanti ed io non sono in grado di presentarle e editarle, questo giornalismo civile non passerà mai. Non è che la rete faccia queste cose di per sé. E prima o poi proveranno a controllare anche questa con grande danno di tutti noi. Su questo sono brutalmente trotzkista, il problema fondamentale è l’intenzione, la capacità, il giudizio».


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