L'imprenditore 70enne è considerato dai magistrati l'uomo su cui la mafia avrebbe puntato, a partire dagli anni Duemila, per inserirsi negli affari all'interno degli stabilimenti industriali. All'uomo, che alle spalle ha già due condanne per associazione mafiosa, nei giorni scorsi sono state confiscate tre società
Gela, la famiglia Emmanuello e il petrolchimico Gli appetiti di Cosa nostra tramite Filippo Sciascia
Meglio rinunciare alle pretese avanzate, a meno di non volere rischiare di finire «all’interno di un pilastro» o «riempito di calcestruzzo». È uno dei messaggi intimidatori che il 70enne imprenditore gelese Filippo Sciascia – destinatario di un provvedimento di confisca di beni per un valore di due milioni di euro eseguito dalla Direzione investigativa antimafia di Caltanissetta – avrebbe fatto recapitare al titolare di una ditta, colpevole di reclamare il pagamento di un affitto di mezzi concessi alla Conapro, società consortile di lavori edili e di meccanica che, secondo gli inquirenti, si sarebbe affermata a Gela, riuscendo a mettere le mani anche all’interno del petrolchimico. Il tutto grazie alla vicinanza alla famiglia mafiosa degli Emmanuello. Contro la società, a metà anni Duemila, si scagliò Rosario Crocetta, ai tempi sindaco di Gela, estromettendola dagli appalti per via dell’incapacità di produrre i documenti necessari a sottoscrivere il protocollo di legalità.
Di collegamenti tra Filippo Sciascia, il fratello maggiore Emanuele e il clan legato a Cosa nostra, nelle motivazioni che accompagnano la decisione del Tribunale, ce ne sono parecchi. Testimonianze di collaboratori di giustizia, intercettazioni e aneddoti che raccontano una contiguità lunga almeno trent’anni. Decenni nei quali il 70enne ha subito due condanne definitive per associazione mafiosa: la prima patteggiata e relativa all’inchiesta In&Out, la seconda a otto anni per il processo Leonina societas, dove Sciascia è stato imputato anche per il tentato omicidio dell’ingegnere Fabrizio Lisciandra – imprenditore, consigliere comunale e patron della squadra calcistica Juveterranova – con il giudice che ha rimodulato il reato in lesioni personali.
Per i magistrati, Sciascia, pur risultando un normale dipendente di Conapro, sarebbe riuscito a piegare il consorzio ai propri interessi e al contempo venire incontro alle aspettative della criminalità organizzata. Anche se non al punto da saziarne completamente gli appetiti. «Daniele Emmanuello – dichiara il collaboratore di giustizia Massimo Billizzi ai magistrati – era deluso perché, dopo essersi garantito una presenza all’interno di Conapro, arrivavano poche briciole: spesa per la famiglia, soldi per gli avvocati, qualche assunzione, anziché il fiume di denaro che ci si aspettava». Nel 2009, l’ex reggente della famiglia, Crocifisso Smorta, racconta di quando, tra fine 2000 e inizio 2001, si trova in carcere insieme a Emanuele Sciascia. Quest’ultimo lo avrebbe messo al corrente degli affari del fratello. «Venendo dal colloquio mi disse – mette a verbale Smorta – che c’era un grosso lavoro che stava gestendo suo fratello. Conapro avrebbe riservato alla nostra famiglia il tre per cento del fatturato che avrebbe fatto al petrolchimico».
Secondo gli inquirenti, Filippo Sciascia avrebbe guadagnato non solo benefici economici ma anche protezione. A dirlo è Rosario Trubia, un altro collaboratore di giustizia, che definisce i fratelli «soggetti a disposizione della famiglia, amici nostri che nessuno può toccare». Dal canto suo, gli Sciascia avrebbero fatto leva sull’intimidazione per risolvere conflitti sorti dentro al consorzio. Come la volta in cui Emanuele avrebbe chiesto a Smorta di fare scendere a più miti consigli un ingegnere accusato di ostacolare un affare gestito dal fratello: «Mi chiese di fargli sapere che avrebbe dovuto stare al suo posto e non interferire, l’importo dei lavori era molto alto, si parlava di un fatturato di 40 miliardi di lire – ricorda il collaboratore di giustizia -. Io allora mandai un’ambasciata dal carcere. Dissi di non interferire. Nei colloqui successivi, Sciascia mi disse che tutto procedeva regolarmente». Le minacce sarebbero servite anche a fare desistere un dipendente licenziato dal proposito di rivolgersi ai sindacati. «Lo convincemmo ad accontentarsi della liquidazione – ricostruisce la vicenda il collaboratore Salvatore Cavaleri -. Quando gli dissi che mi mandava Pippo Sciascia, commentò sconfortato con la frase “ha mandato i mafiosi”».
Nel decreto di confisca c’è spazio anche per l’Imprecem, società a responsabilità limitata che, nel 2003, sarebbe stata voluta da Sciascia nella prospettiva di una liquidazione e successivo fallimento di Conapro, cosa che poi realmente è accaduta. In tal senso, gli inquirenti sottolineano come tra le due società ci fu una «transumanza delle risorse», ma soprattutto si soffermano sulle modalità, quantomeno curiose, con cui avvenne la liquidazione del consorzio: l’operazione, infatti, venne affidata a una sarta napoletana ultranovantenne. Del tutto ignara di ciò che era stata chiamata a fare. A essere raggiunta dalla confisca, infine, è stata una terza società: la Gela Gas srl. La ditta, specializzata nella trasformazione dei prodotti petroliferi, sarebbe stata a completa disposizione di Sciascia. Grazie anche al fatto che tra i soci c’erano la moglie e i cognati, mentre il genero figurava tra i dipendenti.