Faber o della riconoscenza

Se ne andarono dieci anni fa, a quattro mesi di distanza l’uno dall’altro, allo stesso modo, entrambi per un male incurabile.
Battisti e De Andrè, quasi coetanei, restano ancora oggi, anche per le generazioni che li hanno conosciuti solo dopo la loro morte, i due più amati e popolari artisti della musica d’autore italiana.
Ma quanta simbolica differenza nella loro ultima uscita di scena, quella del congedo che riassume e ricapitola un’esistenza: il funerale di Battisti nascosto agli sguardi dei più, dietro cancelli serrati e vetri d’auto oscurati che davano alle esequie l’aspetto di un mistery inquietante, disturbante proprio per quel fiscale rispetto di un’assoluta volontà di privacy che nulla concedeva all’amore incondizionato di un pubblico che non aveva e non ha mai smesso di amarlo.
I fiori lasciati sotto la pioggia o davanti all’ospedale davano il senso dell’abbandono che avranno provato le migliaia di persone comuni che si radunavano spontaneamente per ringraziare e ricambiare in quel modo la semplice gioia provata attraverso le canzoni che avevano cantato e con cui erano diventati adulti.

Il funerale di De Andrè, invece, fu emozionante al pari di tante sue memorabili ballate, in mezzo a un mare di gente, la stessa che lui aveva raccontato e che non veniva esclusa dai familiari i cui volti apparivano perciò quasi trasfigurati da un abbraccio immenso di folla con cui condividere la grandezza di un dolore che riguardava indistintamente tutti.
Perché Faber era di tutti, come tutti i grandi artisti. Persino un gigante della poesia come Mario Luzi confessò allora il proprio disagio e si scusò per essere “invecchiato nella quasi totale ignoranza del suo talento”.

Questi due congedi così differenti mi danno oggi il senso della distanza fra Battisti e De Andrè, mi fanno amare il secondo più del primo a cui riservo tuttavia l’ammirazione dovuta ad un indiscutibile talento, limitandosi ad essere -quest’ammirazione – un sentimento che me lo fa sentire meno “mio”, meno autentico, come se avesse detto nelle sue bellissime canzoni di provare cose che forse non provava affatto.
De Andrè invece era “come” le sue ballate e per questo più interessante e vero e imperituro. Le sue canzoni, a differenza di quelle di Battisti, non sono fatte per essere cantate, ma per essere “pensate” e Faber le scrisse “pensando” a quella gente con cui si riconosceva e che lo riconosceva.

Ecco. Nella riconoscenza del pubblico, nel riconoscersi reciproco tra artista e pubblico c’è spazio persino per una straniante felicità, quella della gratitudine che si deve ad un artista capace di raccontare, senza ruffianerie o ipocriti moralismi, la vita di ognuno, le odissee tragiche o ridicole di piccoli eroi, né migliori né peggiori di ognuno di noi.
Per il resto, di lui si è detto tutto, tanto che non saprei dire niente di più o di meglio.

C’è una canzone che ho ascoltato centinaia di volte con un groppo in gola, non solo per ciò che dice, ma anche perché mi ricorda una delle ultime esibizioni in pubblico, pochi mesi prima di morire: Khorakhané.
Sul palco con Faber c’erano i figli Cristiano e Luvi. Alla fine del pezzo, la telecamera lo inquadra per poco più di un secondo, quanto basta per scorgere un De Andrè commosso per l’applauso tributato dal pubblico alla figlia.

In quel suo “sollievo di lacrime a invadere gli occhi e dagli occhi cadere” io scorgo l’artista che amo e l’uomo che ammiro. E se mai qualcuno si accingesse a scrivere quella “storia della lacrime” che auspicava un genio della critica come Roland Barthes, mi piacerebbe immaginare di poterci ritrovare anche questa piccola e umanissima pagina di Fabrizio De Andrè.

[L’intervento del professor Castelli è stato pubblicato per la prima volta sul forum online della Facoltà di Lettere e Filosofia il 9 gennaio 2009].

 


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